PIANO NAZIONALE ANTICORRUZIONE
(Delibera 3 agosto 2016 n. 831)
Determinazione di approvazione definitiva del Piano Nazionale
Anticorruzione 2016. (16A05994)
(GU n.197 del 24-8-2016 – Suppl. Ordinario n. 35)
IL CONSIGLIO DELL’AUTORITÀ
Visto l’art. 19, comma 15 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 «Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari» che trasferisce all’Autorità nazionale anticorruzione le funzioni del Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri in materia di prevenzione della corruzione, di cui all’art. 1 della legge 6 novembre 2012 n. 190 recante «Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione». Considerato che in virtù dell’art. 1, comma 2-bis della legge n. 190/2012, introdotto dal decreto legislativo n. 97/2016, il Piano nazionale anticorruzione (PNA) è adottato sentiti il Comitato interministeriale di cui al comma 4 della medesima legge e la Conferenza unificata di cui all’art. 8, comma 1, del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281. Vista la deliberazione del Consiglio dell’Autorità del 18 maggio 2016 con cui è stata approvata la bozza preliminare del PNA e disposta la consultazione pubblica per il periodo 20 maggio 2016 – 9 giugno 2016. Valutate le osservazioni e i contributi pervenuti. Vista la decisione del Consiglio dell’Autorità del 6 luglio 2016 di approvazione del testo del PNA per l’invio al Comitato interministeriale e alla Conferenza unificata ai fini dell’acquisizione dei rispettivi pareri. Visto il parere favorevole, con osservazioni, della Conferenza unificata del 21 luglio 2016. Visto il parere favorevole del Comitato interministeriale del 28 luglio 2016.
IL CONSIGLIO DELL’AUTORITÀ
Approva in via definitiva il Piano Nazionale Anticorruzione 2016 e ne dispone la pubblicazione sul sito istituzionale dell’ANAC e l’invio alla Gazzetta Ufficiale.
Roma, 3 agosto 2016
Il Presidente: Cantone
Depositata presso la Segreteria del Consiglio in data 4 agosto 2016
Il Segretario: Esposito
Allegato
Autorità Nazionale Anticorruzione
Piano Nazionale Anticorruzione 2016
PARTE GENERALE 1
Premessa: il nuovo PNA e le recenti modifiche legislative
corruzione
3.1 Pubbliche amministrazioni
3.2 Enti pubblici economici, ordini professionali, società in
controllo pubblico ed altri enti di diritto privato assimilati
3.3 Società in partecipazione pubblica ed altri enti di diritto
privato assimilati
normative
adozione del PTPC
5.1 Organi di indirizzo
5.2 Responsabile della prevenzione della corruzione e della
trasparenza
5.3 Organismi indipendenti di valutazione
7.1 Trasparenza
7.2 Rotazione
7.3 Verifica delle dichiarazioni sulla insussistenza delle cause
di inconferibilità
7.4 Revisione dei processi di privatizzazione e esternalizzazione
di funzioni, attività strumentali e servizi pubblici
7.5 Whistleblowing
PARTE SPECIALE – APPROFONDIMENTI
I – PICCOLI COMUNI
Premessa
corruzione
locali
3.1 Unioni di comuni
3.2 Convenzioni di Comuni
II – CITTÀ METROPOLITANE
Premessa
comune capoluogo, comuni del territorio)
2.1 Rapporto tra città metropolitana e regione per identificare
le funzioni e i relativi processi da mappare nei PTPC
2.2 Rapporto tra città metropolitana e comune capoluogo al fine
di favorire forme di coordinamento per la predisposizione dei
rispettivi PTPC
2.3 Rapporto tra città metropolitana e piccoli comuni del
territorio, per coordinare e semplificare l’attività di elaborazione
dei rispettivi PTPC
III – ORDINI E COLLEGI PROFESSIONALI
Premessa
PTPC e di misure di prevenzione della corruzione
1.1 Responsabile della Prevenzione della corruzione e della
trasparenza
1.2 Predisposizione del PTPC e delle misure di prevenzione della
corruzione
1.3 Organo che adotta il PTPC o le misure di prevenzione della
corruzione
collegi professionali
2.1 Formazione professionale continua
2.2 Adozione di pareri di congruità sui corrispettivi per le
prestazioni professionali
2.3 Indicazione di professionisti per lo svolgimento di
incarichi
IV – ISTITUZIONI SCOLASTICHE
Premessa
relazione al d.lgs. 97/2016
(AFAM)
V – TUTELA E VALORIZZAZIONE DEI BENI CULTURALI
Premessa
nomina del RPCT nel MIBACT
VI – GOVERNO DEL TERRITORIO
Premessa
metropolitana
2.1 Varianti specifiche
2.2 Fase di redazione del piano
2.3 Fase di pubblicazione del piano e raccolta delle
osservazioni
2.4 Fase di approvazione del piano
3.1 Piani attuativi d’iniziativa privata
3.2 Piani attuativi di iniziativa pubblica
3.3 Convenzione urbanistica
3.4 Approvazione del piano attuativo
3.5 Esecuzione delle opere di urbanizzazione
abilitativi edilizi
5.1 Assegnazione delle pratiche per l’istruttoria
5.2 Richiesta di integrazioni documentali
5.3 Calcolo del contributo di costruzione
5.4 Controllo dei titoli rilasciati
VII – SANITÀ
Introduzione
Ruolo del responsabile della prevenzione della corruzione
Premessa
1.1 Altri soggetti non di diritto pubblico: gli ospedali
classificati e altri soggetti accreditati con il SSN
sanitario e requisiti soggettivi
2.1 Profili di competenza
2.2 Aspetti organizzativi
Acquisti in ambito sanitario
procurement in sanità
1.1 Possibili ambiti di conflitto di interesse
2.1 Altre proposte di misure di trasparenza nel settore degli
acquisti
committenza o dei soggetti aggregatori
e degli enti del SSN in tema di acquisti: strumento operativo
Nomine
Premessa
1.1 Incarichi di direzione di struttura complessa
1.2 Incarichi di direzione di struttura semplice
1.3 Incarichi di natura professionale anche di alta
specializzazione, di consulenza, di studio, e ricerca, ispettivi, di
verifica e di controllo
3.1 Incarichi conferiti ai sensi dell’art. 15 septies del d.lgs.
502/1992
3.2 Personale proveniente dagli ospedali classificati
Rotazione del personale
Premessa
1.1 Area clinica
1.2 Area tecnica e amministrativa
1.3 Altre professioni sanitarie
Rapporti con i soggetti erogatori
Premessa
1.1 Rafforzamento della trasparenza
1.2 Rafforzamento dei controlli
2.1 Rafforzamento della trasparenza
2.2 Rafforzamento dei controlli
2.3 Altre indicazioni
3.1 Misure specifiche per la fase contrattuale
Ulteriori temi di approfondimento
derivanti da sperimentazioni cliniche
2.1 Criteri per la ripartizione dei proventi
tempi e delle liste di attesa e dell’attività libero professionale
intra moenia
PARTE GENERALE
Premessa: il nuovo PNA e le recenti modifiche legislative Il presente Piano Nazionale Anticorruzione 2016 (di seguito PNA) è il primo predisposto e adottato dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (di seguito ANAC), ai sensi dell’art. 19 del decreto legge 24 giugno 2014, n. 90, che ha trasferito interamente all’Autorità le competenze in materia di prevenzione della corruzione e della promozione della trasparenza nelle pubbliche amministrazioni. Il PNA è in linea con le rilevanti modifiche legislative intervenute recentemente, in molti casi dando attuazione alle nuove discipline della materia, di cui le amministrazioni dovranno tener conto nella fase di attuazione del PNA nei loro Piani triennali di prevenzione della corruzione (di seguito PTPC), in particolare a partire dalla formazione dei PTPC per il triennio 2017-2019. Si fa riferimento, in particolare, al decreto legislativo 25 maggio 2016, n. 97, «Recante revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza, correttivo della legge 6 novembre 2012, n. 190 e del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, ai sensi dell’articolo 7 della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche» (di seguito d.lgs. 97/2016) e al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 sul Codice dei contratti pubblici. Innovazioni rilevanti deriveranno anche dai decreti delegati in materia di società partecipate dalle pubbliche amministrazioni, dai decreti sulla dirigenza pubblica e dal nuovo Testo Unico sul lavoro nelle pubbliche amministrazioni. Le principali novità del d.lgs. 97/2016 in materia di trasparenza riguardano il definitivo chiarimento sulla natura, sui contenuti e sul procedimento di approvazione del PNA e, in materia di trasparenza, la definitiva delimitazione dell’ambito soggettivo di applicazione della disciplina, la revisione degli obblighi di pubblicazione nei siti delle pubbliche amministrazioni unitamente al nuovo diritto di accesso civico generalizzato ad atti, documenti e informazioni non oggetto di pubblicazione obbligatoria. La nuova disciplina chiarisce che il PNA è atto generale di indirizzo rivolto a tutte le amministrazioni (e ai soggetti di diritto privato in controllo pubblico, nei limiti posti dalla legge) che adottano i PTPC (ovvero le misure di integrazione di quelle adottate ai sensi del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231). Il PNA, in quanto atto di indirizzo, contiene indicazioni che impegnano le amministrazioni allo svolgimento di attività di analisi della realtà amministrativa e organizzativa nella quale si svolgono le attività di esercizio di funzioni pubbliche e di attività di pubblico interesse esposte a rischi di corruzione e all’adozione di concrete misure di prevenzione della corruzione. Si tratta di un modello che contempera l’esigenza di uniformità nel perseguimento di effettive misure di prevenzione della corruzione con l’autonomia organizzativa, spesso costituzionalmente garantita, delle amministrazioni nel definire esse stesse i caratteri della propria organizzazione e, all’interno di essa, le misure organizzative necessarie a prevenire i rischi di corruzione rilevati. L’ANAC, ai fini dell’attuazione del PNA, è dotata (art. 1, commi 2 e 3, della legge 6 novembre 2012, n. 190) di poteri di vigilanza sulla qualità di Piani adottati dalle pubbliche amministrazioni, che possono comportare l’emissione di raccomandazioni (ovvero nei casi più gravi l’esercizio del potere di ordine) alle amministrazioni perchè svolgano le attività previste dal Piano medesimo (dalle attività conoscitive alla individuazione di concrete misure di prevenzione). L’ANAC ha, infine, (art. 19, co. 5, d.l. 90/2014) poteri di sanzione nei casi di mancata adozione dei PTPC (o di carenza talmente grave da equivalere alla non adozione). La nuova disciplina tende a rafforzare il ruolo dei Responsabili della prevenzione della corruzione (RPC) quali soggetti titolari del potere di predisposizione e di proposta del PTPC all’organo di indirizzo. È, inoltre, previsto un maggiore coinvolgimento degli organi di indirizzo nella formazione e attuazione dei Piani cosi’ come di quello degli organismi indipendenti di valutazione (OIV). Questi ultimi, in particolare, sono chiamati a rafforzare il raccordo tra misure anticorruzione e misure di miglioramento della funzionalità delle amministrazioni e della performance degli uffici e dei funzionari pubblici. La nuova disciplina persegue, inoltre, l’obiettivo di semplificare le attività delle amministrazioni nella materia, ad esempio unificando in un solo strumento il PTPC e il Programma triennale della trasparenza e dell’integrità (PTTI) e prevedendo una possibile articolazione delle attività in rapporto alle caratteristiche organizzative (soprattutto dimensionali) delle amministrazioni. In piena aderenza agli obiettivi fissati dalla l. 190/2012 il PNA ha il compito di promuovere, presso le amministrazioni pubbliche (e presso i soggetti di diritto privato in controllo pubblico), l’adozione di misure di prevenzione della corruzione. Misure di prevenzione oggettiva che mirano, attraverso soluzioni organizzative, a ridurre ogni spazio possibile all’azione di interessi particolari volti all’improprio condizionamento delle decisioni pubbliche. Misure di prevenzione soggettiva che mirano a garantire la posizione di imparzialità del funzionario pubblico che partecipa, nei diversi modi previsti dall’ordinamento (adozione di atti di indirizzo, adozione di atti di gestione, compimento di attività istruttorie a favore degli uni e degli altri), ad una decisione amministrativa. L’individuazione di tali misure spetta alle singole amministrazioni, perchè solo esse sono in grado di conoscere la propria condizione organizzativa, la situazione dei propri funzionari, il contesto esterno nel quale si trovano ad operare. Il PNA, dunque, deve guidare le amministrazioni nel percorso che conduce necessariamente all’adozione di concrete ed effettive misure di prevenzione della corruzione, senza imporre soluzioni uniformi, che finirebbero per calarsi in modo innaturale nelle diverse realtà organizzative compromettendone l’efficacia preventiva dei fenomeni di corruzione. L’ANAC già con l’Aggiornamento 2015 al PNA (determinazione n. 12 del 28 ottobre 2015) ha dimostrato consapevolezza delle difficoltà delle amministrazioni a compiere per intero questo percorso, come rilevato nell’analisi dei PTPC approvati negli anni 2014 e 2015. L’analisi di un ristretto campione di PTPC adottati nel 2016 (di cui al successivo § 2) mette in luce che, nonostante alcuni significativi progressi, le difficoltà delle amministrazioni permangono e che le stesse non sembrano legate alla specifica complessità delle attività di prevenzione della corruzione da compiere, ma ad una più generale difficoltà nella autoanalisi organizzativa, nella conoscenza sistematica dei processi svolti e dei procedimenti amministrativi di propria competenza, nella programmazione unitaria di tutti questi processi di riorganizzazione. Tali criticità potranno essere progressivamente superate anche all’esito dei processi di riforma amministrativa introdotti dalla legge 7 agosto 2015, n. 124 e dai relativi decreti delegati. Nel campo specifico della lotta alla corruzione l’Autorità continua decisamente nell’opera di prevenzione, sottolineando la centralità del risultato (le misure di prevenzione) anche rispetto ai passaggi e al metodo generale per raggiungerlo. Di qui la scelta nella direzione dell’approfondimento di specifiche realtà amministrative, per tipologie di amministrazioni o per settori specifici di attività. Con il presente PNA 2016 la scelta viene confermata e rafforzata. A una parte generale volta ad affrontare problematiche relative all’intero comparto delle pubbliche amministrazioni (e dei soggetti di diritto privato in loro controllo) segue una parte dedicata ad una più ampia serie di approfondimenti specifici. In tal modo l’Autorità continua a offrire un supporto progressivo, che verrà dunque implementato e integrato nel corso dei prossimi anni, cominciando da alcune delle amministrazioni che in questi primi anni hanno mostrato maggiori problematiche nell’applicazione della legge e in alcuni settori particolarmente esposti a fenomeni di corruzione. Le tipologie di amministrazioni sono i piccoli comuni, le città metropolitane e gli ordini professionali. Sono state, inoltre, svolte alcune precisazioni in ordine all’applicazione della normativa anticorruzione nella Istituzioni scolastiche e negli Istituti di Alta Formazione Artistica Musicale e Coreutica (AFAM) ad integrazione e aggiornamento della delibera n. 43/2016 «Linee guida sull’applicazione alle istituzioni scolastiche delle disposizioni di cui alla legge 6 novembre 2012, n. 190 e al decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33». Le materie riguardano la tutela e la valorizzazione dei beni culturali, il governo del territorio e la sanità. Un approfondimento specifico è dedicato alla misura della rotazione ed alcune indicazioni integrative concernono la tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti, determinazione n. 6/ 2015 «Linee guida in materia di tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti (c.d. whistleblower)». Procedimento di predisposizione del PNA Per tutti questi ambiti di attenzione sono stati costituiti appositi tavoli tecnici di approfondimento con l’attiva partecipazione delle amministrazioni direttamente interessate e dei principali operatori del settore. In particolare, gli approfondimenti sui piccoli comuni e le città metropolitane hanno formato oggetto di un tavolo di lavoro con ANCI, UPI, Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome e Ministero dell’Interno. Al tavolo sugli ordini professionali hanno partecipato: la rete delle professioni tecniche in rappresentanza di architetti pianificatori paesaggisti e conservatori, chimici, dottori agronomi e dottori forestali, geologi, geometri e geometri laureati, ingegneri, periti agrari e periti agrari laureati, periti industriali e periti industriali laureati, tecnologi alimentari, il consiglio nazionale del notariato, il comitato unico delle professioni, il consiglio nazionale dei consulenti del lavoro, il consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, consiglio nazionale degli architetti pianificatori paesaggisti e conservatori, consiglio nazionale degli ingegneri. Sulla tutela e valorizzazione dei beni culturali, il referente è stato il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (di seguito MIBACT). Al tavolo del governo del territorio hanno partecipato ANCI, UPI, Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome. Le indicazioni relative alla misura della rotazione sono state oggetto di un confronto con la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della funzione pubblica (di seguito DFP) – in considerazione delle strette connessioni fra l’applicazione della misura e la normativa sull’organizzazione delle pubbliche amministrazioni e del pubblico impiego. Le parti relative alla sanità sono state predisposte grazie all’ausilio di tavoli di lavoro costituiti insieme all’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (di seguito AGENAS) e al Ministero della salute. Il lavoro svolto ha condotto alla individuazione, sempre con finalità di indirizzo più che di imposizione di obblighi, di misure di prevenzione non più generali, ma specifiche, calibrate ai processi rilevati ed emerse dalle esperienze concrete delle amministrazioni. Nella definizione dei contenuti si è tenuto conto anche delle importanti indicazioni e degli orientamenti che provengono dal contesto internazionale (cfr. § 1) nonchè degli esiti della valutazione di un campione di PTPC di amministrazioni centrali e locali (cfr. § 2). Ne risulta un quadro di misure sempre più articolato e differenziato, con effetti diversi nei settori esaminati e nella generalità delle pubbliche amministrazioni. Le misure, sia pure suggerite e non imposte, nascono dall’analisi dei rischi di corruzione che, nelle amministrazioni considerate, risultano ricorrenti. Nel rispetto del principio di non aggravamento del procedimento, le amministrazioni interessate potranno anche adottare diverse misure preventive, sempre che dimostrino la loro maggiore congruità in relazione al proprio contesto organizzativo e a quanto indicato nel PNA. Nella generalità delle amministrazioni, le misure di settore hanno un valore ancora più accentuatamente indicativo e costituiscono pur sempre delle valide indicazioni di misure da adattare a casi simili. Per fare solo un esempio: se nel settore del governo del territorio si suggerisce l’introduzione di controlli successivi a campione sui titoli abilitativi rilasciati o sull’attività di vigilanza edilizia svolta dagli uffici, analoghe misure potranno essere introdotte per il controllo di analoghe attività dell’amministrazione in settori diversi. Nei prossimi anni, con gli Aggiornamenti al presente PNA, si proseguirà con il metodo degli approfondimenti di settore, in qualche caso dando continuità ai tavoli già insediati (sanità, beni culturali, piccoli comuni), in altri affrontando settori e tematiche nuove (l’ambiente, la scuola, gli enti di diritto privato in controllo pubblico). In questo senso, l’Autorità propone il PNA come strumento di indirizzo e sostegno alle amministrazioni orientato a favorire l’attuazione sostanziale, secondo un principio improntato allo scopo, non meramente formale e adempitivo, della normativa. Procedimento di approvazione del PNA I lavori di predisposizione del PNA sono stati avviati in un fase in cui la l. 190/2012, art. 1, co. 4, prevedeva che il PNA fosse approvato «anche secondo linee di indirizzo adottate dal Comitato interministeriale istituito e disciplinato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri». Ai sensi del novellato art. 1 della l. 190/2012, da parte dell’art. 41, co. 1, lett. b) del d.lgs. 97/2016, il PNA è, invece, adottato dall’ANAC, sentiti il Comitato interministeriale istituito con d.p.c.m. del 16 gennaio 2013 e la Conferenza unificata di cui all’art. 8, co. 1, del decreto legislativo. 28 agosto 1997, n. 281. Nella fase interlocutoria che ha caratterizzato la predisposizione del presente PNA, l’Autorità ha, da un lato, formalmente chiesto alla Presidenza del Consiglio se volesse adottare nuove linee di indirizzo. Dall’altro, ha predisposto il PNA tenendo conto che, in base alla normativa vigente, l’adozione di nuove linee di indirizzo non è obbligatoria e non impedisce la sua approvazione. Il presente PNA, pertanto, è stato adottato in via preliminare dal Consiglio dell’Autorità nella seduta del 18 maggio 2016, ed è stato sottoposto a consultazione pubblica aperta, al fine di ricevere osservazioni e proposte di integrazione. Sono pervenuti complessivamente 48 contributi da parte di regioni, enti locali, enti del servizio sanitario nazionale, enti pubblici, società, ordini professionali, associazioni, dipendenti pubblici, soggetti privati. Sono, inoltre, stati coinvolti 52 soggetti istituzionali nazionali e internazionali (1) attraverso scambi di note. In particolare hanno fornito suggerimenti o riscontri: l’Avvocatura generale dello Stato, il Dipartimento della funzione pubblica, il Ministro per le riforme costituzionali e rapporti con il Parlamento, il Ministro dell’interno, il Ministro dello Sviluppo Economico, il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, il Ministro per gli affari regionali, il Ministro dell’istruzione dell’università e della ricerca, il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, la Conferenza delle regioni e delle province autonome, la Banca d’Italia, l’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia (UIF), il Garante per la protezione dei dati personali, l’Unione delle province d’Italia (UPI), la CGIL, l’UGL, la Confindustria, il Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti (CNCU) presso il Ministero dello sviluppo economico. Lo schema di PNA è stato anche oggetto di una specifica sessione di approfondimento nel corso della Seconda giornata nazionale dei RPC che si è svolta il 24 maggio 2016 e nella quale sono emersi importanti spunti di riflessione. Le osservazioni e i suggerimenti pervenuti sono stati valutati ai fini della stesura del testo finale del PNA approvato dall’Autorità in data 6 luglio 2016 e inviato per il parere previsto dalla più recente normativa, al Comitato interministeriale e alla Conferenza unificata Stato, Regioni e Autonomie locali. In data 21 luglio e in data 28 luglio 2016, rispettivamente, la Conferenza Unificata (2) e il Comitato interministeriale hanno espresso parere favorevole. La Conferenza ha riportato anche osservazioni del 9 giugno 2016 valutate ai fini della versione del PNA licenziata dal Consiglio il 6 luglio 2016. L’auspicio dell’Autorità è che il PNA possa contribuire a responsabilizzare maggiormente tutti i soggetti che a vario titolo operano nelle amministrazioni – dagli organi di indirizzo, ai RPC, ai dirigenti e ai dipendenti tutti – nella consapevolezza che la prevenzione dei fenomeni corruttivi non possa che essere il frutto di una necessaria interazione delle risorse, delle competenze e delle capacità di ognuno. Coordinamento con il PNA 2013 Come anticipato, il presente PNA ha un’impostazione diversa rispetto al precedente del 2013. Sia nella parte generale che nella parte speciale l’Autorità ha scelto di svolgere approfondimenti su temi specifici senza soffermarsi su tutti quelli già trattati in precedenza. Di seguito sono riportate alcune indicazioni sui termini della modifica o dell’integrazione fra i due documenti. Alla luce delle recenti modifiche normative, in particolare dell’art. 2-bis del d.lgs. 33/2013, introdotto dall’art. 3 del d.lgs. 97/2016 e dell’art. 1, co. 2 bis della l. 190/2012, introdotto dall’art. 41 del d.lgs. 97/2016 (di seguito art. 1, co. 2-bis, l. 190/2012), il PNA 2013 è da intendersi superato con riferimento all’identificazione delle pubbliche amministrazioni e degli enti direttamente destinatari del PNA. Lo stesso può dirsi per la misura della rotazione, che nel presente PNA trova una più compiuta disciplina, e per la tutela del dipendente che segnala illeciti (cd. whistleblower) su cui l’Autorità ha adottato apposite Linee guida a cui si rinvia. Sulla trasparenza, oggetto di profonde innovazioni apportate dal d.lgs. 97/2016, vengono forniti alcuni nuovi indirizzi interpretativi, salvo il rinvio a successive Linee guida. Sui codici di comportamento e sulle altre misure generali, oggetto di orientamenti dell’ANAC successivi all’adozione del PNA (es. Linee guida sui codici di comportamento), l’Autorità, pur confermando l’impostazione generale, si riserva di intervenire anche ai fini di un maggior coordinamento. Resta ferma l’impostazione relativa alla gestione del rischio elaborata nel PNA 2013, come integrato dall’Aggiornamento 2015 al PNA, anche con riferimento alla distinzione tra misure organizzative generali e specifiche e alle loro caratteristiche. Le amministrazioni e gli enti non sono invece più tenuti a trasmettere ad ANAC i dati che il DFP richiedeva secondo quanto previsto nel § 4 del PNA 2013. Quanto già indicato nell’Aggiornamento 2015 al PNA, sia per la parte generale che per quella speciale, è da intendersi integrativo del presente PNA. 1. Orientamenti internazionali I contenuti e le raccomandazioni raccolte nel presente PNA sono strettamente ancorati ad adempimenti internazionali alla cui attuazione l’ordinamento italiano è tenuto. L’Autorità, infatti, è chiamata a dare il proprio apporto anche in sede di elaborazione e esecuzione di norme internazionali entro l’ordinamento italiano in coerenza di quanto previsto dall’art. 1, co. 2, lett. a) della l. 190/2012 secondo cui l’Autorità «collabora con i paritetici organismi stranieri, con le organizzazioni regionali e internazionali competenti». In questa prospettiva l’ANAC partecipa attivamente alle attività svolte nelle sedi internazionali quali l’ONU, il G20, l’OCSE, il Consiglio d’Europa e l’Unione europea da cui emergono, a fianco dell’azione repressiva, importanti orientamenti e leve di tipo preventivo della corruzione di cui questo PNA fa parte. Si consideri, anzitutto, l’ambito della cooperazione intergovernativa che si situa a livello internazionale entro le Nazioni Unite. Il Report adottato dallo United Nations Office on Drugs and Crime (di seguito UNODC) nel 2015 al termine del primo esercizio di peer review, nel sottolineare positivamente il lavoro svolto dal nostro Paese (a legislazione vigente al termine del 2013), ha tuttavia indicato taluni punti sui quali occorre introdurre miglioramenti. In particolare è evidenziata la necessità di dare corretta esecuzione ai procedimenti disciplinari nei confronti di chi, all’interno della pubblica amministrazione e degli ordini professionali, venga coinvolto in fatti di corruzione. Il Global Compact – che opera nel quadro dell’Agenda delle NU 2030 per lo sviluppo sostenibile – incoraggia le aziende che operano in campo sia pubblicistico che privatistico ad adottare politiche di impresa socialmente responsabili, in adempimento dell’Obiettivo 16° dell’Agenda stessa indirizzato alla promozione di una società giusta, pacifica e inclusiva. Il 10° Principio del Global Compact (2014) indica l’obiettivo di sviluppare politiche e programmi contro la corruzione con riferimento alle catene di subfornitura imprenditoriali: evidenti sono i riflessi della tematica sul mondo degli appalti di opere pubbliche. Il Global Compact ha anche emanato il Business for the Rule of Law Framework (2015) che impegna il mondo imprenditoriale socialmente responsabile a iniziative di rilievo per il rafforzamento della trasparenza e dello stato di diritto, con diretta attenzione ai diritti umani e agli investimenti sociali. Nella stessa direzione si situa il Report Ruggie intitolato al Protect, Respect and Remedy Framework (2008), seguito dal Guiding Principles on Business and Human Rights (2011): la comunità internazionale segnala la diretta responsabilità dell’attività di impresa nel rispetto di standard minimi di tutela dei diritti dell’uomo gravemente pregiudicati anche da pratiche di corruzione. L’enfasi è posta sul diritto di ciascuna persona a vivere in un ambiente legale ed integro e sul volano che quest’ultimo rappresenta per la crescita economica del paese. Nell’ambito del G20 l’Anti Corruption Working Group (di seguito ACWG) lavora con l’OCSE e la Banca Mondiale per fornire indirizzi di policy nella definizione e attuazione delle misure contro la corruzione: gli High Level Principles sulla governance dell’anticorruzione mondiale vengono adottati dai Leader nel corso dei summit che, di volta in volta, concludono l’esercizio multilaterale annuale. Tra i documenti più recenti, vi sono specifici riferimenti alle aeree di approfondimento nel presente PNA. Si segnalano, tra gli altri: gli High Level Principles on Beneficial Ownership Transparency (2014) sulla (effettiva) trasparenza degli assetti societari, alla base dell’adozione del Piano nazionale italiano sui beneficial ownership del 2015 e in linea con la IV Direttiva antiriciclaggio dell’UE (849/2015) per l’adozione del registro delle imprese. La Direttiva riguarda, poi, più in generale i presidi di prevenzione antiriciclaggio consistenti in misure di adeguata verifica, tracciabilità delle operazioni e di segnalazione di operazioni sospette. Rilevanti risultano anche gli High Level Principles on integrity and security in private sector (2015) sulla trasparenza nel settore privato. Particolare importanza, in detto contesto, assumono gli High Level Principles on integrity in Procurement (2015), frutto dello sforzo comune in ambito G20 di OCSE, Italia e Brasile: essi contengono sempre specifici riferimenti agli appalti telematici e all’integrità e trasparenza delle procedure. Per rimarcare l’importanza di quest’ultimo documento, e più in generale la necessità di presidiare efficacemente il settore del Procurement, l’OCSE ha di recente pubblicato un Report (3) in cui si sottolinea come il tema sia di rilievo fondamentale, sia per l’intrinseco legame tra settore pubblico e privato, sia perchè nei Paesi OCSE nel 2013 gli appalti pubblici hanno rappresentato il 12% del PIL e il 29% della spesa delle amministrazioni pubbliche. Il G20, in collaborazione con OCSE, con il Gruppo d’Azione Finanziaria Internazionale (di seguito GAFI), UNODC e World Bank, adotta anche un Piano d’Azione biennale che individua, con la tecnica del risk management, le aree più esposte e prioritarie per la lotta alla corruzione. Le stesse sono censite come segue: ownership transparency; bribery; private sector transparency and integrity; international cooperation; public sector transparency and integrity, extractives, fisheries, forestry, customs e, da ultimo, sport), per una sempre più incisiva lotta alla corruzione nei settori pubblico e privato, nonchè per la trasparenza nei rapporti tra imprese e Governi. A completamento si richiamano anche le 40 Raccomandazioni del GAFI che attribuiscono particolare rilievo al rafforzamento dei presidi relativi alle persone politicamente esposte (PEP) e dettano standard stringenti in materia di trasparenza delle società e dei trust, al fine di identificare i titolari effettivi e contrastare l’utilizzo illecito dei veicoli societari. Dai tavoli di cooperazione multilaterale instaurati presso l’OCSE e dalle raccomandazioni e linee guida di orientamento generale in essi prodotti giungono all’Italia importanti sollecitazioni. L’OCSE ha infatti da anni attivato gruppi di lavoro e comitati sui temi, tra gli altri, dell’integrità, della trasparenza, dell’anticorruzione e degli appalti pubblici, nell’ambito dei quali periodicamente vengono elaborati con il contributo di tutti i Paesi aderenti e dei delegati partecipanti, documenti che cristallizzano esperienze di successo e forniscono indicazioni metodologiche e pratiche per favorire la convergenza su standard e best practices internazionalmente riconosciuti. È il caso ad esempio della Recommendation on Public Integrity (la cui adozione è prevista per l’autunno del 2016) destinata a sostituire la Recommendation on Improving Ethical Conduct in the Public Service (1998), sviluppandone ulteriormente i contenuti e rafforzando il presidio dei temi dell’integrità e della trasparenza, portando a frutto le più recenti esperienze e lezioni apprese a livello internazionale nel settore. Nel draft del documento all’esito della consultazione pubblica si sottolinea l’imprescindibile necessità di garantire l’integrità di tutti i processi e le attività pubbliche dei Paesi OCSE, a tutti i livelli di governo, da perseguire anche attraverso i principi e le indicazioni contenute nelle Raccomandazioni. Esse riconoscono la necessità di prevedere in ogni contesto nazionale un “sistema di integrità” generale nell’ambito del quale sviluppare “sotto-sistemi di integrità” specifici. Si raccomanda inoltre di sviluppare un approccio strategico, che delinei gli obiettivi e le priorità nella gestione dei rischi relativi a irregolarità, corruzione, frodi e illegalità in generale. La gestione dei rischi dovrebbe portare in ciascun settore, e all’interno di esso in particolare per i processi identificati come critici, alla predisposizione di segnali di avvertimento – le c.d. red flags – che permettano di monitorarli efficacemente per prevenire la corruzione e le illegalità. Anche la Recommendation on Public Procurement del 2015, sebbene focalizzata sull’ambito specifico degli appalti pubblici, delinea un più generale approccio in cui viene raccomandato l’utilizzo dell’analisi dei rischi per orientare le misure di prevenzione della corruzione e di promozione dell’integrità per settori e ambiti specifici dei diversi livelli di governo e amministrazione territoriale. Insieme alla trasparenza, alla piena accessibilità ai dati e alle informazioni sulle attività e sull’uso delle risorse pubbliche, alle procedure e le pratiche promosse per favorire la partecipazione degli stakeholder, questa misura è un leit motiv della produzione documentale in ambito OCSE. Nella stessa prospettiva si situano gli High Level Principles per l’integrità, la trasparenza e i controlli efficaci di grandi eventi e delle relative infrastrutture elaborati da OCSE e ANAC (2015) sulla base della comune esperienza di lavoro per EXPO Milano 2015: da essi, infatti, sono state tratte lezioni e principi generali in tema di trasparenza e accountability, che possono rappresentare un modello a disposizione della comunità internazionale e degli attori che operano ai fini della realizzazione di grandi eventi e delle relative infrastrutture. Nel documento riferito alle grandi infrastrutture e eventi, ma mutatis mutandis a ogni ambito di attività pubblica, la trasparenza è concepita come il principio fondamentale per ottenere la fiducia pubblica e per assicurare l’accountability delle attività. L’apertura verso il pubblico può aiutare a rispondere all’esigenza di informazione della società civile e a ridurre in questo modo possibili tensioni, oltre a coinvolgere i cittadini in una forma di controllo sociale diffuso. «L’uso dei siti web, per esempio, si rivela un mezzo molto utile per veicolare tra gli stakeholders ed i cittadini informazioni sugli appalti pubblici, sullo stato di evoluzione dei progetti, sul modello di governance, etc., cosi’ da permettere anche l’interoperabilità con il mondo accademico o con altre organizzazioni. Si raccomanda la pubblicazione dei dati in formato aperto e in sezioni ben evidenziate dei siti web e strutturate in modo standardizzato, affinchè le informazioni siano facilmente accessibili e efficacemente riutilizzabili da parte degli stakeholders». Anche il Gruppo di lavoro dell’OCSE Working Group on Bribery (di seguito WGB) – competente sulla corruzione nelle operazioni economiche internazionali – ha espresso, in sede di Conferenza Ministeriale (16 marzo 2016) un’importante dichiarazione con specifici riferimenti alla trasparenza dell’azione amministrativa e all’integrità negli appalti pubblici, soprattutto in occasione dei grandi eventi. Venendo all’ambito della cooperazione internazionale interessata a livello europeo, l’Addendum al Rapporto di conformità sull’Italia per il primo e secondo ciclo di valutazione congiunti adottato nel 2013 dal Gruppo di Stati contro la Corruzione (GRECO), nell’ambito del Consiglio d’Europa, affronta in modo specifico il tema della trasparenza e dell’accesso ai dati e documenti rilevanti dell’azione amministrativa negli enti locali, raccomandando l’apertura alle richieste di conoscenza dell’azione amministrativa di cittadini e portatori di interesse e una maggiore uniformità nell’applicazione delle norme in materia di trasparenza e accesso civico negli enti locali. Anche dall’ambito dell’Unione europea giungono importanti sollecitazioni. Nella Relazione della Commissione europea (COM (2014) 38 final, ANNEX 12), si sottolinea la necessità che l’ordinamento italiano presidi in modo efficace gli enti locali e i livelli di governo territoriale attraverso misure per la prevenzione della corruzione che siano in grado di promuovere la trasparenza e di contrastare i conflitti di interesse, le infiltrazioni della criminalità organizzata, la corruzione e il malaffare, sia nelle cariche elettive sia nell’apparato amministrativo. Si raccomanda inoltre di garantire un quadro uniforme per i controlli e la verifica dell’uso delle risorse pubbliche a livello regionale e locale, soprattutto in materia di appalti pubblici. Una particolare enfasi è posta sul tema della trasparenza ad ogni livello di governo e per tutte le pubbliche amministrazioni. In particolare la Commissione si sofferma sull’esigenza di rendere più trasparenti gli appalti pubblici, prima e dopo l’aggiudicazione, come richiesto peraltro dalle Raccomandazioni del 2013 e del 2014 del Consiglio europeo sul programma nazionale di riforma dell’Italia (cfr. COM (2013) 362 final; COM (2014) 413 final), anche attraverso l’obbligo per le strutture amministrative di pubblicare online i conti e i bilanci annuali, insieme alla ripartizione dei costi per i contratti pubblici di opere, forniture e servizi e all’apertura del mercato dei servizi pubblici locali. Nel generale capitolo in cui viene effettuata una ricognizione sui settori maggiormente esposti alla corruzione in tutti gli Stati Membri, la Relazione ha anche raccomandato l’applicazione sistematica dell’analisi dei rischi per meglio individuare le aree in cui concentrare l’attenzione e gli sforzi per prevenire la corruzione e disegnare strategie specifiche per il contrasto della corruzione. Tra i settori individuati come particolarmente a rischio di corruzione sono indicati quello della pianificazione e dello sviluppo urbano e ambientale nonchè quello della sanità, con riguardo soprattutto agli appalti e ai rapporti con le industrie farmaceutiche. 2. Esiti della valutazione dei PTPC 2016-2018 Nel corso del 2016 è stato individuato un campione ristretto di amministrazioni pubbliche (198) al fine di analizzare i PTPC 2016-2018 adottati. Il primo dato che emerge è la percentuale significativa di soggetti che, almeno fino al mese di aprile 2016, risultavano non aver adottato il PTPC, pari al 31,8% del campione; in particolare, per i comuni non metropolitani la percentuale si attesta al 53,8%. Il successivo ricampionamento per tipologia di amministrazione (ove possibile) ha permesso di individuare un ulteriore insieme di 186 amministrazioni; i PTPC da queste ultime adottati hanno costituito l’oggetto dell’analisi, con il duplice obiettivo di comprendere, alla luce dell’Aggiornamento 2015 al PNA, lo scostamento rispetto alle indicazioni ivi contenute, nonchè il miglioramento dei documenti adottati rispetto al precedente monitoraggio. La metodologia di analisi dei PTPC è stata improntata a criteri qualitativi, piuttosto che quantitativi. Emerge un timido miglioramento dei livelli qualitativi dei PTPC, anche se l’analisi effettuata lascia intravedere ampi margini di miglioramento. Si continuano, tra l’altro, a rilevare criticità in tutte le fasi del processo di gestione del rischio, cosi’ come nella governance generale del sistema e nella previsione, attuazione e monitoraggio delle misure, confermando una certa difficoltà nell’applicazione della normativa. In particolare, i principali risultati dell’analisi sono i seguenti: Adozione del PTPC Per le amministrazioni del campione (che hanno adottato i PTPC 2016-2018) risulta che il 19,89% ha adottato anche la prima versione del PTPC 2013-2015; il 67,2% ha adottato la versione del PTPC 2014-2016; l’80,1% ha adottato la versione del PTPC 2015-2017. Da notare che tali dati si riferiscono non soltanto all’adozione ma anche alla pubblicazione sul sito istituzionale. Pertanto, si rileva una diffusa propensione all’aggiornamento dei PTPC, pur se con livelli qualitativi differenziati, da parte delle amministrazioni adempienti. Il coinvolgimento degli stakeholder interni ed esterni L’Aggiornamento 2015 al PNA sottolineava l’importanza di adottare i PTPC assicurando il pieno coinvolgimento di tutti i soggetti dell’amministrazione e degli stakeholder esterni, al fine di migliorare la strategia complessiva di prevenzione della corruzione dell’amministrazione. Sebbene ancora lontani dai livelli ottimali, i dati del monitoraggio vedono emergere un miglioramento significativo in termini di maggior coinvolgimento degli organi di indirizzo politico-amministrativo e/o degli uffici di diretta collaborazione (lo scorso anno nei PTPC non erano presenti indicazioni di questo tipo) e degli stakeholder interni ed esterni. Il ruolo del RPC Nei PTPC analizzati continuano a permanere alcune criticità generalizzate, anche se si sottolinea l’impegno delle amministrazioni nel tentativo di una migliore declinazione ed interpretazione del ruolo del RPC rispetto alle peculiarità di ciascuna amministrazione. Una buona percentuale di amministrazioni ha meglio esplicitato i poteri di interlocuzione e di controllo (36,6% dei casi), la posizione di autonomia e indipendenza organizzativa del RPC e della struttura di supporto (8,6% dei casi), nonchè l’attribuzione di un supporto conoscitivo e operativo riconosciuto al RPC (nel 32,3% dei casi). Il sistema di monitoraggio Il sistema di monitoraggio sull’implementazione del PTPC continua a essere una variabile particolarmente critica e un miglioramento di tale aspetto è necessario per assicurare l’efficacia del sistema di prevenzione della corruzione delle singole amministrazioni. Quasi la metà delle amministrazioni esaminate non vi fa riferimento (45,2%) e buona parte delle restanti amministrazioni lo esplicita ma in termini del tutto generici. Di contro, il 25,8% delle amministrazioni indica sia tempi che responsabili del monitoraggio e il restante 6% circa si divide tra quelle amministrazioni che esplicitano i tempi ma non i responsabili (1,6%) e quelle che indicano i responsabili ma non i tempi (4,3%). Analisi del contesto esterno Si è riscontrato un indubbio sforzo da parte delle amministrazioni analizzate nel rispondere positivamente alle indicazioni dell’Aggiornamento 2015 al PNA. È cresciuta in modo significativo la percentuale delle amministrazioni che ha effettuato l’analisi del contesto esterno. Inoltre, sembrano migliorare anche i livelli qualitativi di tale analisi. Se è vero che il 24,7% delle amministrazioni ha realizzato l’analisi del contesto esterno in un’ottica di mera compliance e, quindi, con dati poco significativi, il 19,9% ha realizzato tale analisi dando anche evidenza dell’impatto dei dati sul rischio corruttivo per la propria organizzazione. Il restante 9,1%, pur avendo utilizzato dati significativi, non li ha interpretati alla luce delle dinamiche del rischio corruttivo per la propria organizzazione. Analisi del contesto interno Con riferimento all’analisi del contesto interno, il precedente monitoraggio poneva l’accento quasi esclusivamente sull’analisi dei processi organizzativi. A seguito dell’emanazione dell’Aggiornamento 2015 al PNA, si è ribadita l’importanza di segnalare la complessità organizzativa dell’amministrazione in esame, attraverso l’esame della struttura organizzativa, dei ruoli e delle responsabilità interne, cosi’ come delle politiche, degli obiettivi e strategie dell’ente, anche utilizzando dati su eventi o ipotesi di reato verificatesi in passato o su procedure derivanti dagli esiti del controllo interno. In tal senso, il monitoraggio 2016 mostra come il 66% circa del campione di amministrazioni esaminate abbia segnalato nei propri PTPC 2016-2018 informazioni mirate alla comprensione della propria complessità organizzativa e l’8% circa ha utilizzato informazioni concernenti eventi o ipotesi di reato verificatesi in passato o su procedure derivanti dagli esiti del controllo interno. Con riferimento all’analisi (mappatura) dei processi organizzativi, focus del precedente monitoraggio, la situazione appare tendenzialmente stabile, non evidenziando particolari scostamenti tra i due monitoraggi. Nei PTPC analizzati, tendenzialmente, il numero medio di processi censiti per ciascuna area di rischio non supera le 10 unità, suggerendo un livello di analiticità piuttosto basso; a ciò si aggiunge, inoltre, che circa il 12% del campione ha individuato, per ciascun processo censito, sia le fasi sia i responsabili dell’attuazione, percentuale che aumenta al 19% circa, se si considera esclusivamente l’identificazione dei responsabili. Analisi e valutazione del rischio Il precedente rapporto di monitoraggio lasciava emergere un quadro di sostanziale inadeguatezza anche del cosiddetto risk assessment (analisi e valutazione del rischio). Il monitoraggio 2016 evidenzia un significativo miglioramento, con circa il 50% del campione che ha individuato gli eventi rischiosi per ciascun processo, di cui il 12% ha realizzato una puntuale analisi del rischio, attraverso l’identificazione delle loro cause, dato pressochè assente in precedenza. Anche con riferimento alla valutazione e ponderazione del rischio si evince, un seppur lieve, miglioramento. In particolare, si evidenzia un calo della percentuale di amministrazioni che non hanno effettuato alcun tipo di analisi, dal 31,5% dello scorso monitoraggio all’11% circa del monitoraggio 2016. Misure di prevenzione Ancora critica, seppure in miglioramento, appare la fase relativa al trattamento del rischio, sia con riferimento all’individuazione delle misure sia alla loro programmazione. L’individuazione delle misure generali risulta prevalente rispetto a quelle specifiche, la cui presenza nei PTPC delle amministrazioni analizzate oscilla tra l’88,2% (codice di comportamento) e il 33,3% (sensibilizzazione e rapporto con la società civile). La programmazione delle misure generali ha registrato un certo livello di miglioramento, anche se in diversi PTPC risultano solo elencate e solo in una minoranza sono indicati tempi, responsabili, indicatori di monitoraggio e viene data evidenza della loro attuazione. Aumentano le amministrazioni che menzionano le misure specifiche, anche se è limitato il loro approfondimento. Approfondimento – Contratti pubblici Con riferimento alle indicazioni fornite con l’Aggiornamento 2015 al PNA, nella parte dedicata ai Contratti pubblici, i PTPC analizzati hanno presentato le maggiori criticità. In tal senso, la gran parte delle amministrazioni non ha effettuato l’autoanalisi organizzativa suggerita dall’Autorità. Riguardo all’analisi dei processi organizzativi, l’auspicata considerazione delle diverse fasi della gara risulta presente in una bassa percentuale di amministrazioni e oscilla tra il 25,8% (progettazione della gara) e il 18,3% (rendicontazione). Inoltre, anche la presenza di misure specifiche per le summenzionate fasi oscilla tra il 18,3% (progettazione della gara) e l’11,8% (rendicontazione). Appare evidente, quindi, la difficoltà delle amministrazioni di recepire tali indicazioni e la necessità di un periodo di tempo maggiore per l’adeguamento. Approfondimento – Sanità Anche la parte specifica sulla sanità risulta ancora lontana dal risultato atteso. Se si considerano le amministrazioni facenti parte del campione e interessate all’analisi, una bassa percentuale di ASL e Policlinici universitari hanno censito alcuni dei processi tipici delle amministrazioni del comparto (tra cui, attività libero professionale e liste di attesa per circa il 35%, attività conseguenti al decesso in ambito intraospedaliero, per circa il 28% delle amministrazioni campionate). Anche con riferimento alle misure specifiche suggerite dall’Aggiornamento 2015 al PNA nel focus sulla sanità, i livelli di adempimento sono sempre tendenzialmente bassi (comunque sempre inferiori al 40%). Dalla valutazione effettuata, l’Autorità ha tratto alcune indicazioni per la predisposizione del presente PNA. In primo luogo, l’effetto tempo e, presumibilmente, anche le indicazioni contenute nell’Aggiornamento 2015 al PNA sembrano aver aiutato le amministrazioni a superare almeno alcune delle difficolta? sperimentate nelle precedenti annualità in relazione all’individuazione dei rischi di corruzione e alla capacità di collegarli adeguatamente ai processi organizzativi. Ciò induce a valutare gli effetti della normativa anticorruzione in una prospettiva temporale ampia. La valenza di innovazione amministrativa che la normativa anticorruzione comporta e il cambio culturale ad essa connesso richiedono tempi medio lunghi, continuità e stabilità di scelte di fondo. In questa prospettiva, il PNA (che si muove sul solco metodologico già introdotto dal PNA 2013 e ripreso nell’Aggiornamento 2015 al PNA) ribadisce la centralità dell’analisi del rischio e delle misure specifiche di prevenzione della corruzione contestualizzate, fattibili e verificabili nonchè offre ulteriori orientamenti e indicazioni a supporto delle amministrazioni favorendo anche lo scambio di buone pratiche. In secondo luogo, si è riscontrata una tendenziale difficoltà delle amministrazioni ad adeguare autonomamente misure e strumenti previsti nel PNA 2013, con particolare riferimento alle fasi di ponderazione del rischio. Ciò evidenzia, ancora una volta, il disagio delle amministrazioni di uscire da schemi pre-impostati, alla ricerca di soluzioni meglio rispondenti alle peculiarità delle stesse e la necessità, quindi, di offrire strumenti differenziati a seconda del comparto e/o della complessità organizzativa. Il PNA, cercando di superare la logica dell’applicazione uniforme e formalistica della disciplina, si muove proprio nella direzione di provare a dare indicazioni e strumenti differenziati, in particolare con riferimento a possibili semplificazioni organizzative, in caso di ridotte dimensioni degli enti e con riferimento alla tipologia di misure di prevenzione della corruzione. 3. Soggetti tenuti all’adozione di misure di prevenzione della corruzione Sull’ambito soggettivo di applicazione delle disposizioni in materia di trasparenza e degli indirizzi in materia di prevenzione della corruzione dettati dal PNA è recentemente intervenuto il d.lgs. 97/2016 che ha introdotto modifiche ed integrazioni sia al d.lgs. 33/2013 sia alla l. 190/2012. Le modifiche hanno delineato un ambito di applicazione della disciplina della trasparenza diverso, e più ampio, rispetto a quello che individua i soggetti tenuti ad applicare le misure di prevenzione della corruzione. Questi ultimi, inoltre, sono distinti tra soggetti che adottano il PTPC e quelli che adottano misure di prevenzione della corruzione integrative di quelle adottate ai sensi del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231. In particolare il d.lgs. 97/2016 inserisce all’interno del d.lgs. 33/2013, specificamente dedicato alla trasparenza, un nuovo articolo, l’art. 2-bis, rubricato «Ambito soggettivo di applicazione», che sostituisce l’art. 11 del d.lgs. 33/2013, contestualmente abrogato dall’art. 43. Esso individua tre macro categorie di soggetti: le pubbliche amministrazioni (art. 2-bis, co. 1); altri soggetti tra cui enti pubblici economici, ordini professionali, società in controllo ed enti di diritto privato (art. 2-bis, co. 2); altre società a partecipazione pubblica ed enti di diritto privato (art. 2-bis, co. 3). Per quanto riguarda in generale le altre misure di prevenzione della corruzione in attuazione della l. 190/2012, il co. 1, lett. a) e b) dell’art. 41 del d.lgs. 97/2016, modificando la l. 190/2012, specifica che il PNA «costituisce atto di indirizzo per le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai fini dell’adozione dei propri piani triennali di prevenzione della corruzione, e per gli altri soggetti di cui all’art. 2-bis, co. 2 del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, ai fini dell’adozione di misure di prevenzione della corruzione integrative di quelle adottate ai sensi del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, anche per assicurare l’attuazione dei compiti di cui al comma 4, lettera a)». A tal proposito, si ritiene utile fornire un quadro riassuntivo di quanto recentemente previsto in relazione alle diverse categorie di soggetti individuate dalle nuove disposizioni citate al fine di assicurare coerenza e coordinamento del dettato normativo. 3.1 Pubbliche amministrazioni La disciplina in materia di trasparenza si applica pienamente alle pubbliche amministrazioni, intese come «tutte le amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni, ivi comprese le autorità portuali, nonchè le autorità amministrative indipendenti di garanzia, vigilanza e regolazione» (art. 2-bis, co. 1, d.lgs. 33/2013). Con riguardo alle autorità amministrative indipendenti la relazione illustrativa del decreto contiene un’elencazione che ricomprende l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, la Commissione nazionale per le società e la borsa, l’Autorità di regolazione dei trasporti, l’Autorità per l’energia elettrica, il gas il sistema idrico, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, il Garante per la protezione dei dati personali, l’Autorità nazionale anticorruzione, la Commissione di vigilanza sui fondi pensione, la Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, la Banca d’Italia. Le pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, co. 2 del d.lgs. 165/2001 e successive modificazioni, adottano PTPC per i quali il PNA costituisce atto di indirizzo (art. 1, co. 2-bis, l. 190/2012). Al fine di assicurare l’applicazione coordinata di tutte le misure di prevenzione della corruzione, ivi compresa quella della trasparenza, e considerato che per definire i soggetti tenuti ad adottare il PTPC o le misure di prevenzione della corruzione integrative di quelle adottate ai sensi del d.lgs. 231/2001, l’art. 1, co. 2-bis della l. 190/2012 rinvia all’art. 2-bis del d.lgs. 33/2013, tale rinvio non può che essere interpretato come riferito anche a tutti i soggetti ivi richiamati, comprese le Autorità portuali e le Autorità amministrative indipendenti di garanzia, vigilanza e regolazione, tenute ad adottare un proprio PTPC. 3.2 Enti pubblici economici, ordini professionali, società in controllo pubblico ed altri enti di diritto privato assimilati Il legislatore ha disciplinato in modo unitario, in via residuale e speciale, altri soggetti che hanno natura e caratteristiche organizzative differenti fra loro, ovvero gli enti pubblici economici, gli ordini professionali, le società in controllo pubblico, le associazioni, le fondazioni e gli enti di diritto privato comunque denominati. Per quanto concerne la trasparenza, l’art. 2-bis, co. 2, del d.lgs. 33/2013, introdotto dal d.lgs. 97/2016, dispone infatti che la normativa del d.lgs. 33/2013 si applica, in quanto compatibile, anche a: a) enti pubblici economici e ordini professionali; b) società in controllo pubblico come definite dallo schema di decreto legislativo predisposto in attuazione dell’art. 18 della legge 7 agosto 2015, n. 124, «Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica» (4) (nel prosieguo schema di testo unico); Sono escluse, invece, le società quotate come definite dallo stesso decreto legislativo emanato in attuazione dell’art. 18 della legge 7 agosto 2015, n. 124. (5) c) associazioni, fondazioni e enti di diritto privato comunque denominati, anche privi di personalità giuridica, con bilancio superiore a cinquecentomila euro, la cui attività sia finanziata in modo maggioritario per almeno due esercizi finanziari consecutivi nell’ultimo triennio da pubbliche amministrazioni e in cui la totalità dei titolari o dei componenti dell’organo di amministrazione o di indirizzo sia designata da pubbliche amministrazioni. I soggetti di cui alle lettere a) b) c) applicano la medesima disciplina sulla trasparenza prevista per le pubbliche amministrazioni, con riguardo sia all’organizzazione sia all’attività svolta, «in quanto compatibile». Per quanto concerne le altre misure di prevenzione della corruzione, dall’art. 41 citato si evince che detti soggetti debbano adottare misure di prevenzione della corruzione integrative di quelle adottate ai sensi del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 (art. 1, co. 2-bis, l. 190/2012). Essi, pertanto, integrano il modello di organizzazione e gestione ex d.lgs. n. 231 del 2001 con misure idonee a prevenire anche i fenomeni di corruzione e di illegalità in coerenza con le finalità della l. 190/2012. Le misure sono ricondotte in un documento unitario che tiene luogo del PTPC anche ai fini della valutazione dell’aggiornamento annuale e della vigilanza dell’ANAC. Se riunite in un unico documento con quelle adottate in attuazione del d.lgs. n. 231/2001, dette misure sono collocate in una sezione apposita e dunque chiaramente identificabili, tenuto conto che ad esse sono correlate forme di gestione e responsabilità differenti. Nei casi in cui ai soggetti di cui alle lettere a) b) c) non si applichi il d.lgs. 231/2001, o essi ritengano di non fare ricorso al modello di organizzazione e gestione ivi previsto, al fine di assicurare lo scopo della norma e in una logica di semplificazione e non aggravamento, gli stessi adottano un PTPC ai sensi della l. 190/2012 e s.m.i.. 3.3 Società in partecipazione pubblica ed altri enti di diritto privato assimilati Il legislatore ha considerato separatamente, e con solo riferimento alla disciplina in materia di trasparenza, le società a partecipazione pubblica e altri enti di diritto privato assimilati. L’art. 2-bis, co. 3, del d.lgs. 33/2013, dispone infatti che alle società in partecipazione come definite dal decreto legislativo emanato in attuazione dell’articolo 18 della legge 7 agosto 2015, n. 124 (schema di testo unico) e alle associazioni, alle fondazioni e agli enti di diritto privato, anche privi di personalità giuridica, con bilancio superiore a cinquecentomila euro, che esercitano funzioni amministrative, attività di produzione di beni e servizi a favore delle amministrazioni pubbliche o di gestione di servizi pubblici, si applica la medesima disciplina in materia di trasparenza prevista per le pubbliche amministrazioni «in quanto compatibile» e «limitatamente ai dati e ai documenti inerenti all’attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o dell’Unione europea». Per i suddetti soggetti, invece, l’art. 1, co. 2-bis, della l. 190/2012 non prevede alcuna espressa disciplina in materia di adozione di misure di prevenzione della corruzione. In linea con l’impostazione della determinazione ANAC 8/2015, le amministrazioni partecipanti o che siano collegate a detti soggetti in relazione alle funzioni amministrative o ai servizi pubblici da essi svolti ovvero all’attività di produzione di beni e servizi dovrebbero, per le società, promuovere l’adozione del modello di organizzazione e gestione ai sensi del d.lgs. 231/2001, ferma restando la possibilità, anche su indicazione delle amministrazioni partecipanti, di programmare misure organizzative ai fini di prevenzione della corruzione ex l. 190/2012; per gli altri soggetti indicati al citato co. 3, invece, promuovere l’adozione di protocolli di legalità che disciplinino specifici obblighi di prevenzione della corruzione e, laddove compatibile con la dimensione organizzativa, l’adozione di modelli come quello previsto nel d.lgs. 231/2001 ***** Al momento della stesura del presente PNA il decreto legislativo sulle società a partecipazione pubblica (schema di testo unico) non è stato ancora adottato, circostanza che determina incertezze sulla definizione dell’ambito soggettivo di applicazione del d.lgs. 33/2013 e della l. 190/2012. Tenuto, inoltre, conto del fatto che l’Autorità deve individuare gli obblighi di pubblicazione applicabili a dette società e agli altri enti di diritto privato indicati nell’art. 2-bis secondo il criterio della “compatibilità”, l’Autorità si riserva l’approfondimento di tutte queste problematiche e di quelle collegate all’applicazione della l. 190/2012 a detti soggetti in apposite Linee guida, di modifica della determinazione n. 8/2015, da adottare appena in vigore il decreto sopra citato, da considerare parte integrante del presente PNA. Giova fin da ora evidenziare che il comma 2 del nuovo art. 2-bis del d.lgs. 33/2013 esclude le società quotate controllate dalla categoria delle società in controllo pubblico, cui si applica, in quanto compatibile, il regime di trasparenza delle pubbliche amministrazioni. Le società quotate e quelle che emettono strumenti finanziari in mercati regolamentati non sono, invece, espressamente escluse dall’applicazione del co. 3 dello stesso articolo, che prevede un regime di trasparenza per le società partecipate da pubbliche amministrazioni limitato alle attività di pubblico interesse svolte. Sarebbe plausibile, allora, ritenere che, in considerazione delle peculiarità delle società quotate dovute alla quotazione delle azioni e alla contendibilità delle società sul mercato, indice dello svolgimento di attività prevalentemente in regime di libera concorrenza, e valutata l’esistenza di una specifica regolamentazione di settore, le società quotate o che emettono strumenti finanziari quotati in mercati regolamentati, siano considerate, ai fini della trasparenza e della prevenzione della corruzione, quali società partecipate, indipendentemente dall’esistenza di una situazione di effettivo controllo pubblico o meno. 4. Ulteriori contenuti dei PTPC alla luce delle recenti modifiche normative Le amministrazioni e i soggetti specificamente indicati nell’art. 2-bis, co. 2 del d.lgs. 33/2013, sono tenuti ad adottare il PTPC o le misure di prevenzione della corruzione integrative di quelle già adottate ai sensi del d.lgs. 231/2001. Oltre ai contenuti evidenziati nel PNA 2013 e nella determinazione 12/2015, si evidenzia che il d.lgs. 97/2016, nel modificare il d.lgs. 33/2013 e la l. 190/2012, ha fornito ulteriori indicazioni sul contenuto del PTPC. In particolare, il Piano assume un valore programmatico ancora più incisivo, dovendo necessariamente prevedere gli obiettivi strategici per il contrasto alla corruzione fissati dall’organo di indirizzo. L’elaborazione del PTPC presuppone, dunque, il diretto coinvolgimento del vertice delle p.a. e degli enti in ordine alla determinazione delle finalità da perseguire per la prevenzione della corruzione, decisione che è elemento essenziale e indefettibile del Piano stesso e dei documenti di programmazione strategico-gestionale. Altro contenuto indefettibile del PTPC riguarda la definizione delle misure organizzative per l’attuazione effettiva degli obblighi di trasparenza. La soppressione del riferimento esplicito al Programma triennale per la trasparenza e l’integrità, per effetto della nuova disciplina, comporta che l’individuazione delle modalità di attuazione della trasparenza non sia oggetto di un separato atto, ma sia parte integrante del PTPC come “apposita sezione”. Quest’ultima deve contenere, dunque, le soluzioni organizzative idonee ad assicurare l’adempimento degli obblighi di pubblicazione di dati e informazioni previsti dalla normativa vigente. In essa devono anche essere chiaramente identificati i responsabili della trasmissione e della pubblicazione dei dati, dei documenti e delle informazioni. Si raccomanda alle amministrazioni e agli altri enti e soggetti interessati dall’adozione di misure di prevenzione della corruzione, di curare la partecipazione degli stakeholder nella elaborazione e nell’attuazione delle misure di prevenzione della corruzione, anche attraverso comunicati mirati, in una logica di sensibilizzazione dei cittadini alla cultura della legalità. Le nuove disposizioni normative (art. 1, co. 8, l. 190/2012) prevedono che il PTPC debba essere trasmesso all’ANAC. Al riguardo si precisa che, in attesa della predisposizione di un’apposita piattaforma informatica, in una logica di semplificazione degli adempimenti, non deve essere trasmesso alcun documento ad ANAC. Tale adempimento si intende assolto con la pubblicazione del PTPC sul sito istituzionale, sezione “Amministrazione trasparente/Altri contenuti Corruzione”. I documenti in argomento e le loro modifiche o aggiornamenti devono rimanere pubblicati sul sito unitamente a quelli degli anni precedenti. Il rinvio alla comunicazione dei PTPC deve intendersi riferito anche alle misure di prevenzione integrative di quelle adottate ai sensi del d.lgs. n. 231/2001. Anche queste ultime sono pubblicate sul sito istituzionale degli enti, analogamente a quanto evidenziato sopra per i PTPC. 5. Soggetti interni coinvolti nel processo di predisposizione e adozione del PTPC L’Autorità conferma le indicazioni già date nell’Aggiornamento 2015 al PNA, cui si rinvia, con riferimento al ruolo e alle responsabilità di tutti i soggetti che a vario titolo partecipano alla programmazione, adozione, attuazione e monitoraggio delle misure di prevenzione della corruzione. Si evidenzia che le nuove disposizioni ribadiscono che l’attività di elaborazione dei PTPC, nonchè delle misure di prevenzione della corruzione integrative di quelle adottate ai sensi del d.lgs. 231/2001, non può essere affidata a soggetti estranei all’amministrazione o ente (art. 1, co. 8, l. 190/2012, come modificato dall’art. 41, co. 1, lett. g) del d.lgs. 97/2016). Lo scopo della norma è quello di considerare la predisposizione del PTPC un’attività che deve essere necessariamente svolta da chi opera esclusivamente all’interno dell’amministrazione o dell’ente interessato, sia perchè presuppone una profonda conoscenza della struttura organizzativa, di come si configurano i processi decisionali (siano o meno procedimenti amministrativi) e della possibilità di conoscere quali profili di rischio siano involti; sia perchè comporta l’individuazione delle misure di prevenzione che più si attagliano alla fisionomia dell’ente e dei singoli uffici. Tutte queste attività, da ricondurre a quelle di gestione del rischio, trovano il loro logico presupposto nella partecipazione attiva e nel coinvolgimento di tutti i dirigenti e di coloro che a vario titolo sono responsabili dell’attività delle PA e degli enti. Sono quindi da escludere affidamenti di incarichi di consulenza comunque considerati nonchè l’utilizzazione di schemi o di altri supporti forniti da soggetti esterni. In entrambi i casi, infatti, non viene soddisfatto lo scopo della norma che è quello di far svolgere alle amministrazioni e agli enti un’appropriata ed effettiva analisi e valutazione dei rischio e di far individuare misure di prevenzione proporzionate e contestualizzate rispetto alle caratteristiche della specifica amministrazione o ente. D’altra parte, la citata disposizione va letta anche alla luce della clausola di invarianza della spesa che deve guidare p.a. ed enti nell’attuazione della l. 190/2012 e dei decreti delegati ad essa collegati. Di seguito si riportano solamente alcune indicazioni integrative alla luce di richieste di chiarimenti e delle modifiche normative intervenute. 5.1 Organi di indirizzo Gli organi di indirizzo nelle amministrazioni e negli enti dispongono di competenze rilevanti nel processo di individuazione delle misure di prevenzione della corruzione ossia la nomina del RPC e l’adozione del PTPC (art. 41, co. 1, lett. g) del d.lgs. 97/2016). Per gli enti locali la norma precisa che «il piano è approvato dalla giunta». Per quanto riguarda le Province, la legge 7 aprile 2014, n. 56 «Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni», nel ridefinire la forma di governo provinciale (cui sono dedicati i commi da 54 a 56) non prevede più la “giunta”, a favore di una gestione collegiale di “presidente” e “consiglio delle funzioni provinciali”. Si ritiene, pertanto, che nelle Province, attesa l’assenza di Giunta, l’adozione del PTPC debba, di norma, prevedere un doppio passaggio: l’approvazione da parte del Consiglio provinciale di un documento di carattere generale sul contenuto del PTPC e l’adozione da parte del Presidente, fatta salva una diversa previsione statutaria. Ne consegue che la responsabilità in caso di “omessa adozione” si configura in capo all’organo competente all’adozione finale, individuato, salvo diversa disposizione statutaria, nel Presidente. Resta fermo che per omessa adozione si intende tutto quanto evidenziato dall’Autorità nell’art. 1, lett. g) del «Regolamento in materia di esercizio del potere sanzionatorio dell’Autorità Nazionale Anticorruzione per l’omessa adozione dei Piani triennali di prevenzione della corruzione, dei Programmi triennali di trasparenza, dei Codici di comportamento» del 9 settembre 2014. Quanto previsto sull’organo competente ad adottare il PTPC è da intendersi riferito anche all’adozione dei codici di comportamento. La medesima indicazione vale altresi’ per le città metropolitane come precisato al § 3 dell’approfondimento del presente PNA. Resta fermo quanto previsto dall’Aggiornamento 2015 al PNA (§ 4.1) per quel che riguarda gli enti territoriali caratterizzati dalla presenza di due organi di indirizzo politico, uno generale (Consiglio) ed uno esecutivo (Giunta) nonchè per quelli dotati di un solo organo di indirizzo. Tra i contenuti necessari del PTPC vi sono gli obiettivi strategici in materia di prevenzione della corruzione e della trasparenza (art 1, co 8, come novellato dall’art. 41 del d.lgs. 97/2016). Si raccomanda agli organi di indirizzo di prestare particolare attenzione alla individuazione di detti obiettivi nella logica di una effettiva e consapevole partecipazione alla costruzione del sistema di prevenzione. Tra questi già l’art. 10, co. 3, del d.lgs. 33/2013, come novellato dall’art. 10 del d.lgs. 97/2016, stabilisce che la promozione di maggiori livelli di trasparenza costituisce obiettivo strategico di ogni amministrazione, che deve tradursi in obiettivi organizzativi e individuali. In tal caso, ad esempio, può darsi come indicazione quella di pubblicare “dati ulteriori” in relazione a specifiche aree a rischio. La mancanza di tali obiettivi può configurare un elemento che rileva ai fini della irrogazione delle sanzioni di cui all’art. 19, co. 5, lett. b) del d.l. 90/2014. Sempre nell’ottica di un effettivo coinvolgimento degli organi di indirizzo nella impostazione della strategia di prevenzione della corruzione, ad essi spetta anche la decisione in ordine all’introduzione di modifiche organizzative per assicurare al RPC funzioni e poteri idonei allo svolgimento del ruolo con autonomia ed effettività. Si ricorda, inoltre, che gli organi di indirizzo ricevono la relazione annuale del RPC, possono chiamare quest’ultimo a riferire sull’attività e ricevono dallo stesso segnalazioni su eventuali disfunzioni riscontrate inerenti l’attuazione delle misure di prevenzione e di trasparenza. In relazione al coinvolgimenti degli organi di indirizzo, nei termini sopra evidenziati, l’Autorità si riserva di poter chiedere informazioni in merito direttamente agli stessi. 5.2 Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza La figura del RPC è stata interessata in modo significativo dalle modifiche introdotte dal d.lgs. 97/2016. La nuova disciplina è volta a unificare in capo ad un solo soggetto l’incarico di Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza e a rafforzarne il ruolo, prevedendo che ad esso siano riconosciuti poteri e funzioni idonei a garantire lo svolgimento dell’incarico con autonomia ed effettività, eventualmente anche con modifiche organizzative. D’ora in avanti, pertanto, il Responsabile viene identificato con riferimento ad entrambi i ruoli come Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza (RPCT). Si precisa sin da ora che in attuazione delle nuove disposizioni normative, gli organi di indirizzo formalizzano con apposito atto l’integrazione dei compiti in materia di trasparenza agli attuali RPC, avendo cura di indicare la relativa decorrenza. Altro elemento di novità è quello della interazione fra RPCT e organismi indipendenti di valutazione. Si evidenzia, infine, quanto disposto dal decreto del Ministero dell’interno del 25 settembre 2015 (6) «Determinazione degli indicatori di anomalia al fine di agevolare l’individuazione di operazioni sospette di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo da parte degli uffici della pubblica amministrazione» che, all’art. 6, co. 5 prevede che nelle amministrazioni indicate all’art. 1, lett. h) del decreto, la persona individuata come “gestore” delle segnalazioni di operazioni sospette può coincidere con il Responsabile della prevenzione della corruzione, in una logica di continuità esistente fra i presidi anticorruzione e antiriciclaggio e l’utilità delle misure di prevenzione del riciclaggio a fini di contrasto della corruzione. Le amministrazioni possono quindi valutare e decidere, motivando congruamente, se affidare l’incarico di “gestore” al RPCT oppure ad altri soggetti già eventualmente provvisti di idonee competenze e risorse organizzative garantendo, in tale ipotesi, meccanismi di coordinamento tra RPCT e soggetto “gestore”. Si ritiene opportuno, pertanto, precisare e modificare, alla luce del d.lgs. 97/2016 le indicazioni del PNA 2013 e quelle fornite con l’Aggiornamento 2015 al PNA. a) Criteri di scelta Nelle pubbliche amministrazioni Come anticipato, la recente normativa ha optato per l’unificazione in capo ad un unico soggetto delle funzioni di Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, anche in coerenza alla ormai completa integrazione della definizione organizzativa dei flussi informativi per la pubblicazione dei dati di cui al d.lgs. 33/2013 all’interno del PTPC e della eliminazione della predisposizione di un autonomo Programma triennale per la trasparenza e l’integrità. In via generale, per declinare i criteri di scelta del Responsabile è importante tenere conto dell’estensione definitiva delle sue competenze anche alla materia della trasparenza. L’art. 1, co. 7, della l. 190/2012, come novellato, prevede che «l’organo di indirizzo individua, di norma tra i dirigenti di ruolo in servizio il responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza.» (41, co. 1, lett. f, d.lgs. 97/2016). Viene superata la precedente disposizione che considerava in via prioritaria i dirigenti amministrativi di prima fascia quali soggetti idonei all’incarico. Tale nuovo orientamento, che risponde a esigenze di amministrazioni con un numero ridotto di dirigenti di vertice, è tuttavia opportuno sia letto in relazione alla necessità che il RPCT debba poter adeguatamente svolgere il proprio ruolo con effettività e poteri di interlocuzione reali con gli organi di indirizzo e con l’intera struttura amministrativa. Laddove possibile, pertanto, è altamente consigliabile mantenere in capo a dirigenti di prima fascia, o equiparati, l’incarico di RPCT. La nomina di un dipendente con qualifica non dirigenziale deve essere adeguatamente motivata con riferimento alle caratteristiche dimensionali e organizzative dell’ente. Poichè il legislatore ha ribadito che l’incarico di RPCT sia attribuito di norma a un dirigente di ruolo in servizio, è da considerare come un’assoluta eccezione la nomina di un dirigente esterno, con onere di una congrua e analitica motivazione anche in ordine all’assenza di soggetti aventi i requisiti previsti dalla legge. Resta quindi ferma la sicura preferenza per personale dipendente dell’amministrazione, che assicuri stabilità ai fini dello svolgimento dei compiti. Considerata la posizione di autonomia che deve essere assicurata al RPCT, e il ruolo di garanzia sull’effettività del sistema di prevenzione della corruzione, non appare coerente con i requisiti di legge la nomina di un dirigente che provenga direttamente da uffici di diretta collaborazione con l’organo di indirizzo laddove esista un vincolo fiduciario. Si evidenzia, inoltre, l’esigenza che il RPCT abbia adeguata conoscenza dell’organizzazione e del funzionamento dell’amministrazione, sia dotato della necessaria autonomia valutativa, che non sia in una posizione che presenti profili di conflitto di interessi e scelto, di norma, tra i dirigenti non assegnati ad uffici che svolgano attività di gestione e di amministrazione attiva. In questa ottica va evitato, per quanto possibile, che il RPCT sia scelto tra i dirigenti assegnati a uffici che svolgono attività nei settori più esposti al rischio corruttivo, come l’ufficio contratti o quello preposto alla gestione del patrimonio. Per il tipo di funzioni svolte dal RPCT, improntate alla collaborazione e all’interlocuzione con gli uffici, occorre valutare con molta attenzione la possibilità che il RPCT sia il dirigente che si occupa dell’ufficio procedimenti disciplinari. Questa soluzione, peraltro, sembra ora preclusa da quanto previsto nel nuovo co. 7 dell’art. 1, l. 190/2012 secondo cui il Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza indica «agli uffici competenti all’esercizio dell’azione disciplinare» i nominativi dei dipendenti che non hanno attuato correttamente le misure in materia di prevenzione della corruzione e della trasparenza. A questo riguardo, si ritiene che la comunicazione agli uffici competenti all’esercizio dell’azione disciplinare debba essere preceduta, nel rispetto del principio del contraddittorio, da un’interlocuzione formalizzata con l’interessato. Parimenti, il RPCT deve essere una persona che abbia sempre mantenuto una condotta integerrima, escludendo coloro che siano stati destinatari di provvedimenti giudiziali di condanna o provvedimenti disciplinari. Alla luce di quanto sopra è rimessa agli organi di indirizzo delle amministrazioni, cui compete la nomina, in relazione alle caratteristiche strutturali dell’ente e sulla base dell’autonomia organizzativa, la valutazione in ordine alla scelta del RPCT, compatibilmente con i vincoli posti dal legislatore in materia di dotazione organica. Nella nuova normativa rimane la previsione che negli enti locali, la scelta ricada, di norma, sul segretario, in continuità con l’orientamento delineato nel previgente art. 1, co. 7, della l. 190/2012. Tuttavia, considerate le modifiche normative previste dalla l. 124/2015 che interessano le figure dei segretari, il d.lgs. 97/2016 ha espressamente contemplato la possibilità di affidare l’incarico anche a un dirigente apicale, salva una diversa e motivata determinazione dell’ente. Per quanto riguarda le unioni di comuni, è prevista la possibilità di nominare un unico responsabile. Al riguardo si rinvia all’approfondimento del presente PNA riguardante i piccoli comuni (§ 3.1.2) in cui si dà conto anche delle indicazioni in questo senso della l. 56/2014 e del d.lgs. 97/2016. In caso di carenza di posizioni dirigenziali, soprattutto per gli enti di piccole dimensioni, può essere individuato un dipendente con posizione organizzativa, fermo restando quanto sopra esposto nel caso di nomina di dipendenti con qualifica non dirigenziale. Nelle società controllate e negli altri soggetti di cui all’art.2-bis, co. 2, del d.lgs. 33/2013 Per le società controllate e gli altri soggetti indicati all’art. 2-bis, co. 2, del d.lgs. 33/2013, si osserva che l’obbligo di adottare misure di prevenzione integrative del modello organizzativo e gestionale ex d.lgs. 231/2001, espressamente previsto al co. 2-bis della l. 190/2012, a seguito del recente intervento di modifica, risulta del tutto coerente con la linea interpretativa già suggerita dall’Autorità nella determinazione n. 8 del 2015 a cui si rinvia. L’Autorità si riserva di formulare ulteriori indicazioni al riguardo, a seguito dell’emanazione delle norme attuative dell’art. 18 della l. 124/2015 in materia di società pubbliche (schema di testo unico). Si rammenta l’obbligo di comunicare all’ANAC i nominativi dei RPCT, utilizzando il modulo pubblicato sul sito istituzionale dell’Autorità. b) Posizione di indipendenza e di autonomia dall’organo di indirizzo L’intento principale del legislatore, nelle modifiche apportate alla l. 190/2012 (art. 41, co. 1 lett. f) d.lgs. 97/2016), è chiaramente quello di rafforzare e tutelare il ruolo del RPCT, nel senso auspicato dall’Autorità nell’Aggiornamento 2015 al PNA. Il decreto, infatti, stabilisce che l’organo di indirizzo disponga eventuali modifiche organizzative necessarie per assicurare che al RPCT siano attribuiti funzioni e poteri idonei per lo svolgimento dell’incarico con piena autonomia ed effettività. Inoltre, il medesimo decreto, da un lato, attribuisce al RPCT il potere di indicare agli uffici della pubblica amministrazione competenti all’esercizio dell’azione disciplinare i nominativi dei dipendenti che non hanno attuato correttamente le misure in materia di prevenzione della corruzione e di trasparenza. Dall’altro lato, stabilisce il dovere del RPCT di segnalare all’organo di indirizzo e all’OIV «le disfunzioni inerenti all’attuazione delle misure in materia di prevenzione della corruzione e di trasparenza». In considerazione dei numerosi compiti direttamente attribuiti al RPCT nei confronti del personale dell’ente, ed eventualmente per quel che concerne le disfunzioni anche nei confronti degli organi di indirizzo, è indispensabile che tra le misure organizzative da adottarsi da parte degli organi di indirizzo vi siano anche quelle dirette ad assicurare che il RPCT svolga il suo delicato compito in modo imparziale, al riparo da possibili ritorsioni, come già indicato nell’Aggiornamento 2015 al PNA. Si ribadisce l’invito a tutte le amministrazioni e ai soggetti di cui all’art. 2-bis, co. 2, del d.lgs. 33/2013 a regolare adeguatamente la materia con atti organizzativi generali (ad esempio negli enti locali il regolamento degli Uffici e dei servizi) e comunque nell’atto con il quale l’organo di indirizzo individua e nomina il RPCT. A garanzia dello svolgimento delle funzioni del RPCT in condizioni di autonomia e indipendenza, occorre considerare anche la durata dell’incarico di RPCT che deve essere fissata tenendo conto della non esclusività della funzione. Il RPCT, infatti, come anticipato, può essere un dirigente che già svolge altri incarichi all’interno dell’amministrazione. La durata dell’incarico di RPCT in questi casi, dunque, è correlata alla durata del contratto sottostante all’incarico dirigenziale già svolto. Nelle ipotesi di riorganizzazione o di modifica del precedente incarico, quello di RPCT è opportuno che prosegua fino al termine della naturale scadenza del contratto legato al precedente incarico (o di quella che sarebbe dovuta essere la naturale scadenza) e, comunque, in coerenza di quanto previsto nel PTPC. Per incrementare le garanzie del ruolo esercitato dal RPCT è intervenuta l’estensione generalizzata della previsione di doveri di segnalazione all’ANAC di eventuali misure discriminatorie – quindi non più solo in caso di revoca – dirette o indirette nei confronti del RPCT comunque collegate, direttamente o indirettamente, allo svolgimento delle sue funzioni. In tal caso l’ANAC può richiedere informazioni all’organo di indirizzo e intervenire con i poteri di cui all’art. 15, co. 3 del decreto legislativo 8 aprile 2013, n. 39 «Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell’articolo 1, commi 49 e 50, della legge 6 novembre 2012, n. 190». Inoltre, sempre a maggiore tutela del RPCT, può essere letta la novella legislativa laddove prevede l’esclusione dall’imputazione di responsabilità del RPCT (per omesso controllo, sul piano disciplinare) nei casi di ripetute violazioni delle misure di prevenzione previste dal Piano, qualora lo stesso possa provare «di avere comunicato agli uffici le misure da adottare e le relative modalità e di avere vigilato sull’osservanza del Piano» (art. 41, co. 1, lett. l), d.lgs. 97/2016). c) Supporto conoscitivo e operativo al RPCT Al fine di garantire che il RPCT possa svolgere il proprio ruolo con autonomia ed effettività, come previsto dall’art. 41 del d.lgs. 97/2016, l’organo di indirizzo dispone «le eventuali modifiche organizzative necessarie per assicurare funzioni e poteri idonei» al RPCT. È, dunque, altamente auspicabile, da una parte, che il RPCT sia dotato di una struttura organizzativa di supporto adeguata, per qualità del personale e per mezzi tecnici, al compito da svolgere. Dall’altra, che vengano assicurati al RPCT poteri effettivi, preferibilmente con una specifica formalizzazione nell’atto di nomina, di interlocuzione nei confronti di tutta la struttura, sia nella fase della predisposizione del Piano e delle misure sia in quella del controllo sulle stesse. Per quanto riguarda gli aspetti organizzativi, ferma restando l’autonomia di ogni amministrazione o ente, appare necessaria la costituzione di un apposito ufficio dedicato allo svolgimento delle funzioni poste in capo al RPCT. Ove ciò non sia possibile, è opportuno rafforzare la struttura di supporto mediante appositi atti organizzativi che consentano al RPCT di avvalersi di personale di altri uffici. Tale struttura, che potrebbe anche non essere esclusivamente dedicata a tale scopo, può, in una necessaria logica di integrazione delle attività, essere anche a disposizione di chi si occupa delle misure di miglioramento della funzionalità dell’amministrazione (si pensi, ad esempio, ai controlli interni, alle strutture di audit, alle strutture che curano la predisposizione del piano della performance). A tal riguardo, è opportuno prevedere un’integrazione di differenti competenze multidisciplinari di supporto al RPCT. Nel PTPC sono esplicitate le soluzioni organizzative adottate in tal senso. La necessità di rafforzare il ruolo e la struttura organizzativa a supporto del RPCT è tanto più evidente anche alla luce delle ulteriori e rilevanti competenze in materia di accesso civico attribuite al RPCT dal d.lgs. 97/2016. In tale contesto il RPCT, oltre alla facoltà di chiedere agli uffici della relativa amministrazione informazioni sull’esito delle istanze, deve occuparsi, per espressa disposizione normativa (art. 5, co. 7, d.lgs. 33/2013, come novellato dal d.lgs. 97/2016), dei casi di riesame (sia che l’accesso riguardi dati a pubblicazione obbligatoria o meno). d) Poteri di interlocuzione e controllo Come già evidenziato nell’Aggiornamento 2015 al PNA, nella l. 190/2012 sono stati succintamente definiti i poteri del RPCT nella sua interlocuzione con gli altri soggetti interni alle amministrazioni o enti, nonchè nella sua attività di vigilanza sull’attuazione delle misure di prevenzione della corruzione. All’art. 1, co. 9, lett. c) è disposto che il PTPC preveda «obblighi di informazione nei confronti del RPC chiamato a vigilare sul funzionamento e sull’osservanza del Piano». Tali obblighi informativi ricadono su tutti i soggetti coinvolti, già nella fase di formazione del Piano e, poi, nelle fasi di verifica del suo funzionamento e dell’attuazione delle misure adottate. L’atto di nomina del RPCT dovrebbe essere accompagnato da un comunicato con cui si invitano tutti i dirigenti e il personale a dare allo stesso la necessaria collaborazione. Al riguardo si rammenta che l’art. 8 del d.p.r. 62/2013 prevede un dovere di collaborazione dei dipendenti nei confronti del RPCT, dovere la cui violazione è sanzionabile disciplinarmente e da valutare con particolare rigore. È imprescindibile, dunque, un forte coinvolgimento dell’intera struttura in tutte le fasi di predisposizione e di attuazione delle misure anticorruzione. Per la fase di elaborazione del PTPC e dei relativi aggiornamenti, lo stesso PTPC è necessario contenga regole procedurali fondate sulla responsabilizzazione degli uffici alla partecipazione attiva, sotto il coordinamento del RPCT. Ove necessario, il PTPC può rinviare la definizione di tali regole a specifici atti organizzativi interni. Nelle modifiche apportate dal d.lgs. 97/2016 risulta evidente l’intento di rafforzare i poteri di interlocuzione e di controllo del RPCT nei confronti di tutta la struttura. Emerge più chiaramente che il RPCT deve avere la possibilità di incidere effettivamente all’interno dell’amministrazione o dell’ente e che alla responsabilità del RPCT si affiancano con maggiore decisione quelle dei soggetti che, in base alla programmazione del PTPC, sono responsabili dell’attuazione delle misure di prevenzione. Lo stesso d.lgs. 165/2001 all’art. 16, co. 1 lett. l-bis) l-ter) e l-quater), prevede, d’altra parte, tra i compiti dei dirigenti di uffici dirigenziali generali quello di concorrere alla definizione di misure idonee a prevenire e a contrastare i fenomeni di corruzione fornendo anche informazioni necessarie per l’individuazione delle attività nelle quali è più elevato il rischio corruttivo e provvedendo al loro monitoraggio. Un modello a rete, quindi, in cui il RPCT possa effettivamente esercitare poteri di programmazione, impulso e coordinamento e la cui funzionalità dipende dal coinvolgimento e dalla responsabilizzazione di tutti coloro che, a vario titolo, partecipano dell’adozione e dell’attuazione delle misure di prevenzione. Dal d.lgs. 97/2016 risulta anche l’intento di creare maggiore comunicazione tra le attività del RPCT e in particolare quelle dell’OIV, come specificato al § 5.3. Ciò al fine di sviluppare una sinergia tra gli obiettivi di performance organizzativa e l’attuazione delle misure di prevenzione. In tal senso, si prevede, da un lato, la facoltà all’OIV di richiedere al RPCT informazioni e documenti necessari per lo svolgimento dell’attività di controllo di sua competenza (art. 41, co. 1 lett. h), d.lgs. 97/2016). Dall’altro lato, si prevede che la relazione annuale del RPCT, recante i risultati dell’attività svolta da pubblicare nel sito web dell’amministrazione, venga trasmessa oltre che all’organo di indirizzo dell’amministrazione anche all’OIV (art. 41, co. 1, lett. l), d.lgs. 97/2016). e) Responsabilità Le modifiche apportate dal d.lgs. 97/2016 precisano che in caso di ripetute violazioni del PTPC sussiste la responsabilità dirigenziale e per omesso controllo, sul piano disciplinare, se il RPCT non prova di aver comunicato agli uffici le misure da adottare e le relative modalità e di aver vigilato sull’osservanza del Piano. I dirigenti, pertanto, rispondono della mancata attuazione delle misure di prevenzione della corruzione, ove il RPCT dimostri di avere effettuato le dovute comunicazioni agli uffici e di avere vigilato sull’osservanza del Piano. Resta immutata, in capo al RPCT, la responsabilità di tipo dirigenziale, disciplinare, per danno erariale e all’immagine della pubblica amministrazione, prevista all’art. 1, co. 12, della l. 190/2012, in caso di commissione di un reato di corruzione, accertato con sentenza passata in giudicato, all’interno dell’amministrazione. Il RPCT può andare esente dalla responsabilità ove dimostri di avere proposto un PTPC con misure adeguate e di aver vigilato sul funzionamento e sull’osservanza dello stesso. f) RPCT e RASA Al fine di assicurare l’effettivo inserimento dei dati nell’Anagrafe unica delle stazioni appaltanti (AUSA) (7), il RPCT è tenuto a sollecitare l’individuazione del soggetto preposto all’iscrizione e all’aggiornamento dei dati e a indicarne il nome all’interno del PTPC. Occorre considerare, infatti, che ogni stazione appaltante è tenuta a nominare il soggetto responsabile (RASA) dell’inserimento e dell’aggiornamento annuale degli elementi identificativi della stazione appaltante stessa. Si evidenzia, al riguardo, che tale obbligo informativo – consistente nella implementazione della BDNCP presso l’ANAC dei dati relativi all’anagrafica della s.a., della classificazione della stessa e dell’articolazione in centri di costo – sussiste fino alla data di entrata in vigore del sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti previsto dall’art. 38 del nuovo Codice dei contratti pubblici (cfr. la disciplina transitoria di cui all’art. 216, co. 10, del d.lgs. 50/2016). L’individuazione del RASA è intesa come misura organizzativa di trasparenza in funzione di prevenzione della corruzione. In caso di mancata indicazione nel PTPC del nominativo del RASA, previa richiesta di chiarimenti al RPCT, l’Autorità si riserva di esercitare il potere di ordine ai sensi dell’art. 1, co. 3, della l. 190/2012, nei confronti dell’organo amministrativo di vertice, che, nel silenzio del legislatore, si ritiene il soggetto più idoneo a rispondere dell’eventuale mancata nomina del RASA. Nel caso di omissione da parte del RPCT, il potere di ordine viene esercitato nei confronti di quest’ultimo. Resta salva la facoltà delle amministrazioni, nell’ambito della propria autonomia organizzativa, di valutare l’opportunità di attribuire a un unico soggetto entrambi i ruoli (RASA e RPCT) con le diverse funzioni previste, rispettivamente, dal d.l. 179/2012 e dalla normativa sulla trasparenza, in relazione alle dimensioni e alla complessità della propria struttura. g) Eventuali “referenti” Come già chiarito nell’Aggiornamento 2015 al PNA, eventuali “referenti” del RPCT devono essere individuati nel PTPC. I referenti possono rivelarsi utili nelle organizzazioni particolarmente complesse, quali, ad esempio, un Ministero dotato di una rete di uffici periferici. Fermo restando il regime delle responsabilità in capo al RPCT, i referenti possono svolgere attività informativa nei confronti del responsabile, affinchè questi abbia elementi e riscontri per la formazione e il monitoraggio del PTPC e sull’attuazione delle misure. La stessa soluzione non è opportuna, invece, nelle strutture meno complesse nelle quali il successo del PTPC e delle sue misure è affidato alla diretta interlocuzione tra RPCT e responsabili degli uffici. Nelle Linee guida di cui alla determinazione n. 8/2015 sugli enti di diritto privato, è stata prevista la possibilità di nominare referenti del RPCT nelle società di ridotte dimensioni appartenenti ad un gruppo societario, laddove sia stato predisposta un’unica programmazione delle misure di prevenzione ex l. 190/2012 da parte del RPCT della capogruppo. 5.3 Organismi indipendenti di valutazione Gli Organismi indipendenti di valutazione (OIV) rivestono un ruolo importante nel sistema di gestione della performance e della trasparenza nelle pubbliche amministrazioni, svolgendo i compiti previsti dall’art. 14 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150. Al riguardo si rinvia al d.p.r. del 9 maggio 2016, n. 105 «Regolamento di disciplina delle funzioni del Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri in materia di misurazione e valutazione della performance delle amministrazioni pubbliche» e, in particolare all’art. 6. Gli OIV validano la relazione sulle performance, di cui all’art. 10 del d.lgs. 150/2009, dove sono riportati i risultati raggiunti rispetto a quelli programmati e alle risorse; propongono all’organo di indirizzo la valutazione dei dirigenti; promuovono e attestano l’assolvimento degli obblighi di trasparenza (art. 14, co. 1, lett. g), d.lgs. 150/2009). La connessione fra gli obiettivi di performance e le misure di trasparenza ha trovato conferma nel d.lgs. 33/2013, ove si è affermato che la promozione di maggiori livelli di trasparenza costituisce un obiettivo strategico di ogni amministrazione (art. 10). Gli OIV sono tenuti a verificare la coerenza tra gli obiettivi di trasparenza e quelli indicati nel piano della performance, utilizzando altresi’ i dati relativi all’attuazione degli obblighi di trasparenza ai fini della valutazione delle performance (art. 44). L’attività di controllo sull’adempimento degli obblighi di pubblicazione, posta in capo al RPCT, è svolta con il coinvolgimento dell’OIV, al quale il RPCT segnala i casi di mancato o ritardato adempimento (art. 43). Resta fermo il compito degli OIV concernente l’attestazione dell’assolvimento degli obblighi di trasparenza, previsto dal d.lgs. 150/2009. L’OIV, inoltre, esprime parere obbligatorio sul codice di comportamento che ogni amministrazione adotta ai sensi dell’art. 54, co. 5, d.lgs. 165/2001. Le modifiche che il d.lgs. 97/2016 ha apportato alla l. 190/2012 rafforzano le funzioni già affidate agli OIV in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza dal d.lgs. 33/2013, anche in una logica di coordinamento con il RPCT e di relazione con l’ANAC. In linea con quanto già disposto dall’art. 44 del d.lgs. 33/2013, detti organismi, anche ai fini della validazione della relazione sulla performance, verificano che i PTPC siano coerenti con gli obiettivi stabiliti nei documenti di programmazione strategico-gestionale e, altresi’, che nella misurazione e valutazione delle performance si tenga conto degli obiettivi connessi all’anticorruzione e alla trasparenza. In rapporto agli obiettivi inerenti la prevenzione della corruzione e la trasparenza l’OIV verifica i contenuti della relazione recante i risultati dell’attività svolta che il RPCT predispone e trasmette all’OIV, oltre che all’organo di indirizzo, ai sensi dell’art. 1, co. 14, della l. 190/2012. Nell’ambito di tale verifica l’OIV ha la possibilità di chiedere al RPCT informazioni e documenti che ritiene necessari ed effettuare audizioni di dipendenti (art. 1, co. 8-bis, l. 190/2012). Nell’ambito dei poteri di vigilanza e controllo attribuiti all’ANAC, l’Autorità si riserva di chiedere informazioni tanto all’OIV quanto al RPCT in merito allo stato di attuazione delle misure di prevenzione della corruzione e trasparenza (art. 1, co. 8-bis, l. 190/2012), anche tenuto conto che l’OIV riceve dal RPCT le segnalazioni riguardanti eventuali disfunzioni inerenti l’attuazione dei PTPC (art. 1, co. 7, l. 190/2012). Ciò in linea di continuità con quanto già disposto dall’art. 45, co. 2, del d.lgs. 33/2013, ove è prevista la possibilità per l’ANAC di coinvolgere l’OIV per acquisire ulteriori informazioni sul controllo dell’esatto adempimento degli obblighi di trasparenza. Ulteriori indicazioni sull’attività degli OIV in materia di prevenzione della corruzione e di trasparenza potranno essere oggetto di atti di regolamentazione da valutarsi congiuntamente al Dipartimento della funzione pubblica. 6. Gestione del rischio di corruzione Partendo dalla considerazione che gli strumenti previsti dalla normativa anticorruzione richiedono un impegno costante anche in termini di comprensione effettiva della loro portata da parte delle amministrazioni per produrre gli effetti sperati, l’Autorità in questa fase ha deciso di confermare le indicazione già date con il PNA 2013 e con l’Aggiornamento 2015 al PNA per quel che concerne la metodologia di analisi e valutazione dei rischi. Sono indicazioni centrali per la corretta progettazione di misure di prevenzione contestualizzate rispetto all’ente di riferimento. In particolare l’Autorità ribadisce quanto già precisato a proposito delle caratteristiche delle misure di prevenzione della corruzione che devono essere adeguatamente progettate, sostenibili e verificabili. È inoltre necessario che siano individuati i soggetti attuatori, le modalità di attuazione di monitoraggio e i relativi termini. Alcune semplificazioni, per i comuni di piccole dimensioni, sono possibili grazie al supporto tecnico e informativo delle Prefetture in termini di analisi dei dati del contesto esterno. Fermo restando che, come anche specificato nel PNA 2013 (All. 1, p. 24) e nell’Aggiornamento 2015 al PNA, le indicazioni metodologiche non sono vincolanti, con successive linee guida l’Autorità si riserva di apportare le modifiche necessarie al sistema di misurazione. 7. Azioni e misure per la prevenzione Fermo restando quanto già riportato nel PNA 2013 e nell’Aggiornamento 2015 al PNA, l’Autorità ha inteso, in questa sede, dare alcune indicazioni più specifiche sulla misura della trasparenza, in relazione alle modifiche apportate al d.lgs. 33/2013 dal d.lgs. 97/2016, sulla rotazione del personale nonchè sulle misure di revisione dei processi di privatizzazione e esternalizzazione di funzioni, attività strumentali e servizi pubblici. In materia di inconferibilità e incompatibilità degli incarichi, in considerazione dei problemi applicativi registrati, e sulla tutela del dipendente pubblico che sagnala illeciti (c.d. whistleblowing), l’Autorità ha adottato apposite Linee guida a cui viene fatto rinvio. Per quel che concerne i codici di comportamento, si richiama quanto già previsto nell’Aggiornamento 2015 al PNA circa i loro contenuti e la loro valenza. In particolare si ribadisce che gli enti sono tenuti all’adozione di codici che contengano norme e doveri di comportamento destinati a durare nel tempo, da calibrare in relazione alla peculiarità delle finalità istituzionali perseguite dalle singole amministrazioni: non quindi una generica ripetizione dei contenuti del codice di cui al d.p.r. 62/2013, ma una disciplina che, a partire da quella generale, diversifichi i doveri dei dipendenti e di coloro che vi entrino in relazione, in funzione delle specificità di ciascuna amministrazione. Al riguardo l’Autorità si riserva di adottare linee guida di carattere generale, ove ritenuto necessario procedere a modifiche della delibera n. 75 del 24 ottobre 2013, e linee guida per tipologia di amministrazioni e enti. In questa ottica è stato già avviato un tavolo di lavoro «Conflitto di interessi e Codici di comportamento» con AGENAS e Ministero della salute volto ad esaminare il livello di implementazione dei codici di comportamento negli enti del SSN destinatari del presente PNA e a fornire indicazioni migliorative. Il tavolo di lavoro ha operato un’analisi su un campione di 60 aziende ed enti del SSN rappresentativo per area geografica e per tipologia di aziende/enti. Lo studio ha messo in rilievo, a fronte di differenziazioni tra aziende nell’applicazione del d.p.r. 62/2013, anche la presenza di buone prassi trasferibili quali esempi di implementazione delle previsioni contenute nella normativa di settore in maniera da incidere sulle tipicità dell’organizzazione dell’ente di riferimento. 7.1 Trasparenza La trasparenza è una misura di estremo rilievo e fondamentale per la prevenzione della corruzione. Essa è posta al centro di molte indicazioni e orientamenti internazionali (cfr. § 1) in quanto strumentale alla promozione dell’integrità, allo sviluppo della cultura della legalità in ogni ambito dell’attività pubblica. L’Autorità raccomanda, quindi, alle amministrazioni e a tutti gli altri soggetti destinatari del presente PNA di rafforzare tale misura nei propri PTPC anche oltre al rispetto di specifici obblighi di pubblicazione già contenuti in disposizioni vigenti. All’attuale quadro normativo in materia di trasparenza il d.lgs. 97/2016 ha apportato rilevanti innovazioni. Un nuovo ambito soggettivo di applicazione degli obblighi e delle misure in materia di trasparenza è definito all’art. 2-bis rubricato «Ambito soggettivo di applicazione», che sostituisce l’art. 11 del d.lgs. 33/2013. Si rinvia in merito ai contenuti del § 3. Il decreto persegue, inoltre, l’importante obiettivo di razionalizzare gli obblighi di pubblicazione vigenti mediante la concentrazione e la riduzione degli oneri gravanti sulle amministrazioni pubbliche. In questa direzione vanno interpretate le due misure di semplificazione introdotte all’art. 3 del d.lgs. 33/2013. La prima (co. 1-bis) prevede la possibilità di pubblicare informazioni riassuntive, elaborate per aggregazione, in sostituzione della pubblicazione integrale, conferendo all’ANAC il compito di individuare i dati oggetto di pubblicazione riassuntiva con propria delibera da adottare previa consultazione pubblica e sentito il Garante per la protezione dei dati personali, qualora siano coinvolti dati personali. Ciò in conformità con i principi di proporzionalità e di semplificazione e all’esclusivo fine di ridurre gli oneri gravanti sui soggetti tenuti a osservare le disposizioni del d.lgs. 33/2013. La seconda (co. l-ter) consente all’ANAC, in sede di adozione del PNA, di modulare gli obblighi di pubblicazione e le relative modalità di attuazione in relazione alla natura dei soggetti, alla loro dimensione organizzativa e alle attività svolte prevedendo, in particolare, modalità semplificate per i comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti, per gli ordini e collegi professionali. Si consideri, inoltre, quanto previsto all’art. 9-bis del d.lgs. 33/2013, introdotto dal d.lgs. 97/2016, in base al quale qualora i dati che le amministrazioni e gli enti sono tenute a pubblicare ai sensi del d.lgs. 33/2013 corrispondano a quelli già presenti nelle banche dati indicate nell’allegato B) del d.lgs. 33/2013, le amministrazioni e gli enti assolvono agli obblighi di pubblicazione mediante la comunicazione dei dati, delle informazioni e dei documenti dagli stessi detenuti all’amministrazione titolare della corrispondente banca dati. Nella sezione “Amministrazione trasparente” dei rispettivi siti istituzionali è inserito un mero collegamento ipertestuale alle banche dati contenenti i dati, le informazioni e i documenti oggetto di pubblicazione. A fronte della rimodulazione della trasparenza on line obbligatoria, l’art. 6, nel novellare l’art. 5 del d.lgs. 33/2013, ha disciplinato anche un nuovo accesso civico, molto più ampio di quello previsto dalla precedente formulazione, riconoscendo a chiunque, indipendentemente dalla titolarità di situazioni giuridicamente rilevanti, l’accesso ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi pubblici e privati, e salvi i casi di segreto o di divieto di divulgazione previsti dall’ordinamento. Alla luce di quanto sopra, l’Autorità si riserva di intervenire con appositi atti di regolazione. Oltre alle specifiche Linee guida dedicate alle società e agli altri enti di diritto privato partecipati, destinate alla modifica della determinazione n. 8 del 2015, questa Autorità adotterà Linee guida, sempre integrative del PNA, con le quali operare una generale ricognizione dell’ambito soggettivo e oggettivo degli obblighi di trasparenza delle p.a., in sostituzione delle Linee guida di cui alla delibera CIVIT n. 50/2013 (8). Con riguardo al c.d. “accesso civico generalizzato”, l’Autorità è stata investita, d’intesa con il Garante per la protezione dei dati personali e sentita la Conferenza Unificata Stato, Regioni Autonomie locali di cui all’art. 8 del d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281, della regolazione attraverso l’adozione di specifiche Linee guida recanti indicazioni operative. Dette Linee guida è previsto siano adottate entro dicembre 2016. Si precisa sin da ora che le disposizioni transitorie dettate al co. 1 dell’art. 42 del d.lgs. 97/2016 prevedono che i soggetti di cui all’art. 2-bis del d.lgs. 33/2013 si adeguino alle modifiche allo stesso decreto legislativo, introdotte dal d.lgs. n. 97/2016, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto correttivo medesimo (23 dicembre 2016), sia con riferimento agli obblighi di trasparenza sia all’accesso civico generalizzato. L’Autorità, come precisato sopra, si propone di supportare tali soggetti con Linee guida di generale ricognizione degli obblighi di pubblicazione. Fino al 23 dicembre 2016 resta ferma la disciplina vigente e l’attività di vigilanza dell’ANAC avrà a oggetto gli obblighi di trasparenza non modificati dal d.lgs. 97/2016. Invece, sui nuovi obblighi e su quelli oggetto di modifica da parte del d.lgs. 97/2016, l’attività di vigilanza sarà svolta nella fase immediatamente successiva al termine del periodo di adeguamento. Non sono considerati modificati gli obblighi di cui all’art. 14, del d.lgs. 33/2013 riferiti allo Stato, alle Regioni e agli enti locali e quelli di cui all’art. 22, co. 2, del medesimo decreto. Sempre in un’ottica di semplificazione e coordinamento degli strumenti di programmazione in materia di prevenzione della corruzione possono interpretarsi le modifiche all’art. 10 del d.lgs. 33/2013. In base a queste ultime il PTPC contiene, in una apposita sezione, l’individuazione dei responsabili della trasmissione e della pubblicazione dei documenti, delle informazioni e dei dati ai sensi del d.lgs. 33/2013. Si è cosi’ disposta la confluenza dei contenuti del PTTI all’interno del PTPC. Non per questo l’organizzata programmazione della trasparenza perde il suo peso: anzi, chiaramente le nuove disposizioni normative stabiliscono che devono essere indicati i soggetti cui compete la trasmissione e la pubblicazione dei dati, in un’ottica di responsabilizzazione maggiore delle strutture interne delle amministrazioni ai fini dell’effettiva realizzazione di elevati standard di trasparenza. Si ricorda, infine, che oltre alla trasparenza intesa come misura generale quale adeguamento agli obblighi di pubblicazione previsti dal d.lgs. 33/2013 e dalla normativa vigente, le amministrazioni e gli enti possono pubblicare i c.d. “dati ulteriori”, come espressamente previsto dalla l. 190/2012, art. 1, co. 9, lett. f) e dall’art. 7-bis, co. 3 del d.lgs. 33/2013. L’ostensione di questi dati on line deve avvenire nel rispetto della normativa sulla tutela della riservatezza e procedendo all’anonimizzazione di dati personali eventualmente presenti. Negli approfondimenti del presente PNA sono esemplificate numerose ulteriori misure specifiche di trasparenza in funzione di prevenzione della corruzione. 7.2 Rotazione Nell’ambito del PNA la rotazione del personale è considerata quale misura organizzativa preventiva finalizzata a limitare il consolidarsi di relazioni che possano alimentare dinamiche improprie nella gestione amministrativa, conseguenti alla permanenza nel tempo di determinati dipendenti nel medesimo ruolo o funzione. L’alternanza riduce il rischio che un dipendente pubblico, occupandosi per lungo tempo dello stesso tipo di attività, servizi, procedimenti e instaurando relazioni sempre con gli stessi utenti, possa essere sottoposto a pressioni esterne o possa instaurare rapporti potenzialmente in grado di attivare dinamiche inadeguate. In generale la rotazione rappresenta anche un criterio organizzativo che può contribuire alla formazione del personale, accrescendo le conoscenze e la preparazione professionale del lavoratore. In tale direzione va anche l’esperienza del settore privato dove, a fronte di un mondo del lavoro sempre più flessibile e di rapido cambiamento delle competenze richieste, il livello di professionalità si fonda non tanto o, non solo, sulle capacità acquisite e dimostrate, ma anche su quelle potenziali e future. La rotazione è una tra le diverse misure che le amministrazioni hanno a disposizione in materia di prevenzione della corruzione. Il ricorso alla rotazione deve, infatti, essere considerato in una logica di necessaria complementarietà con le altre misure di prevenzione della corruzione specie laddove possano presentarsi difficoltà applicative sul piano organizzativo. In particolare occorre considerare che detta misura deve essere impiegata correttamente in un quadro di elevazione delle capacità professionali complessive dell’amministrazione senza determinare inefficienze e malfunzionamenti. Per le considerazioni di cui sopra, essa va vista prioritariamente come strumento ordinario di organizzazione e utilizzo ottimale delle risorse umane da non assumere in via emergenziale o con valenza punitiva e, come tale, va accompagnata e sostenuta anche da percorsi di formazione che consentano una riqualificazione professionale. Ove, pertanto, non sia possibile utilizzare la rotazione come misura di prevenzione contro la corruzione, le amministrazioni sono tenute a operare scelte organizzative, nonchè ad adottare altre misure di natura preventiva che possono avere effetti analoghi, quali a titolo esemplificativo, la previsione da parte del dirigente di modalità operative che favoriscono una maggiore condivisione delle attività fra gli operatori, evitando cosi’ l’isolamento di certe mansioni, avendo cura di favorire la trasparenza “interna” delle attività o ancora l’articolazione delle competenze, c.d. “segregazione delle funzioni”. Restano, naturalmente, ferme le discipline speciali di rotazione previste per particolari categorie di personale non contrattualizzato. 7.2.1 Inquadramento normativo: rotazione ordinaria e straordinaria La rotazione del personale all’interno delle pubbliche amministrazioni nelle aree a più elevato rischio di corruzione è stata introdotta come misura di prevenzione della corruzione dall’art. 1, co. 5, lett. b) della l. 190/2012, ai sensi del quale le pubbliche amministrazioni devono definire e trasmettere all’ANAC «procedure appropriate per selezionare e formare, in collaborazione con la Scuola superiore della pubblica amministrazione, i dipendenti chiamati ad operare in settori particolarmente esposti alla corruzione, prevedendo, negli stessi settori, la rotazione di dirigenti e funzionari». Inoltre, secondo quanto disposto dall’art. 1, co. 10, lett. b) della l. 190/2012, il RPCT deve verificare, d’intesa con il dirigente competente, «l’effettiva rotazione degli incarichi negli uffici preposti allo svolgimento delle attività nel cui ambito è più elevato il rischio che siano commessi reati di corruzione». Questo tipo di rotazione, c.d. “ordinaria” (si veda infra § 7.2.2) è stata, quindi, inserita dal legislatore come una delle misure organizzative generali a efficacia preventiva che può essere utilizzata nei confronti di coloro che operano in settori particolarmente esposti alla corruzione. L’istituto della rotazione era stato già previsto dal d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, c.d. Testo Unico sul pubblico impiego, dall’art. 16, co. 1, lett. l-quater) (lettera aggiunta dall’art. 1, co. 24, d.l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla l. 7 agosto 2012, n. 135), sia pure come misura di carattere successivo al verificarsi di fenomeni corruttivi. La norma citata prevede, infatti, la rotazione «del personale nei casi di avvio di procedimenti penali o disciplinari per condotte di natura corruttiva». Di tale misura, c.d. rotazione straordinaria, che solo nominalmente può associarsi all’istituto generale della rotazione, si tratterà nel § 7.2.3. 7.2.2 Rotazione ordinaria La rotazione ordinaria del personale è espressamente richiamata nelle Linee guida adottate dal Comitato interministeriale, istituito con d.p.c.m. 16 gennaio 2013, come misura da valorizzare nella predisposizione del Piano Nazionale Anticorruzione. L’art. 1, co. 4, lett. e) della l. 190/2012, dispone che spetta all’ANAC definire i criteri che le amministrazioni devono seguire per assicurare la rotazione dei dirigenti nei settori particolarmente esposti alla corruzione. Si ricorda, infatti, che l’art. 19, co. 15, del d.l. 90/2014 ha previsto che «Le funzioni del Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri in materia di trasparenza e prevenzione della corruzione di cui all’articolo 1, commi 4, 5 e 8, della legge 6 novembre 2012 n. 190, e le funzioni di cui all’articolo 48 del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, sono trasferite all’Autorità nazionale anticorruzione». L’ambito soggettivo di applicazione della rotazione va identificato con riguardo sia alle organizzazioni alle quali essa si applica, sia ai soggetti interessati dalla misura. Con riferimento alle organizzazioni, ai sensi dell’art. 1, co. 59, della l. 190/2012, si deve trattare delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, co. 2, del d.lgs. 165/2001. Pur in mancanza di una specifica previsione normativa relativa alla rotazione negli enti di diritto privato a controllo pubblico e negli enti pubblici economici, l’Autorità ritiene opportuno che le amministrazioni controllanti e vigilanti promuovano l’adozione da parte dei suddetti enti di misure di rotazione come già, peraltro, indicato nelle Linee guida di cui alla determinazione n. 8 del 17 giugno 2015. In tale sede, sono inoltre state suggerite, in combinazione o in alternativa alla rotazione, misure quali quella della articolazione delle competenze (c.d. “segregazione delle funzioni”) con cui sono attribuiti a soggetti diversi i compiti relativi a: a) svolgimento di istruttorie e accertamenti; b) adozione di decisioni; c) attuazione delle decisioni prese; d) effettuazione delle verifiche. Per quanto concerne l’individuazione specifica di quali siano i dipendenti pubblici interessati dalla misura, la lettura sistematica delle disposizioni normative, (co. 4, lett. e), e co. 5, lett. b) dell’art. 1 della l. 190/2012), tenuto anche conto della finalità sostanziale della misura e dello scopo della norma e, peraltro, in continuità con le indicazioni già fornite nel PNA 2013, inducono a ritenere che l’ambito soggettivo sia riferito a tutti i pubblici dipendenti. Vincoli alla rotazione Le condizioni in cui è possibile realizzare la rotazione sono strettamente connesse a vincoli di natura soggettiva attinenti al rapporto di lavoro e a vincoli di natura oggettiva, connessi all’assetto organizzativo dell’amministrazione. • Vincoli soggettivi Le amministrazioni sono tenute ad adottare misure di rotazione compatibili con eventuali diritti individuali dei dipendenti interessati soprattutto laddove le misure si riflettono sulla sede di servizio del dipendente. Si fa riferimento a titolo esemplificativo ai diritti sindacali, alla legge 5 febbraio 1992 n. 104 (tra gli altri il permesso di assistere un familiare con disabilità) e al d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151 (congedo parentale). Con riferimento all’applicabilità della misura della rotazione, se attuata tra sedi di lavoro differenti, nei confronti del personale dipendente che riveste il ruolo di dirigente sindacale, si ritiene necessaria, in conformità con recenti orientamenti giurisprudenziali, una preventiva informativa da indirizzarsi all’Organizzazione sindacale con lo scopo di consentire a quest’ultima di formulare in tempi brevi osservazioni e proposte in ragione dei singoli casi. • Vincoli oggettivi La rotazione va correlata all’esigenza di assicurare il buon andamento e la continuità dell’azione amministrativa e di garantire la qualità delle competenze professionali necessarie per lo svolgimento di talune attività specifiche, con particolare riguardo a quelle con elevato contenuto tecnico. Si tratta di esigenze già evidenziate dall’ANAC nella propria delibera n. 13 del 4 febbraio 2015, per l’attuazione dell’art. 1, co. 60 e 61, della l. 190/2012, ove si esclude che la rotazione possa implicare il conferimento di incarichi a soggetti privi delle competenze necessarie per assicurare la continuità dell’azione amministrativa. Tra i condizionamenti all’applicazione della rotazione vi può essere quello della cosiddetta infungibilità derivante dall’appartenenza a categorie o professionalità specifiche, anche tenuto conto di ordinamenti peculiari di settore o di particolari requisiti di reclutamento. Occorre tenere presente, inoltre, che sussistono alcune ipotesi in cui è la stessa legge che stabilisce espressamente la specifica qualifica professionale che devono possedere alcuni soggetti che lavorano in determinati uffici, qualifica direttamente correlata alle funzioni attribuite a detti uffici; ciò avviene di norma nei casi in cui lo svolgimento di una prestazione è direttamente correlato al possesso di un’abilitazione professionale e all’iscrizione nel relativo albo. Nel caso in cui si tratti di categorie professionali omogenee non si può invocare il concetto di infungibilità. Rimane sempre rilevante, anche ai fini della rotazione, la valutazione delle attitudini e delle capacità professionali del singolo. Proprio per prevenire situazioni come questa, in cui la rotazione sembrerebbe esclusa da circostanze dovute esclusivamente alla elevata preparazione di determinati dipendenti, le amministrazioni dovrebbero programmare adeguate attività di affiancamento propedeutiche alla rotazione. Rotazione e formazione La formazione è una misura fondamentale per garantire che sia acquisita dai dipendenti la qualità delle competenze professionali e trasversali necessarie per dare luogo alla rotazione. Una formazione di buon livello in una pluralità di ambiti operativi può contribuire a rendere il personale più flessibile e impiegabile in diverse attività. Si tratta, complessivamente, attraverso la valorizzazione della formazione, dell’analisi dei carichi di lavoro e di altre misure complementari, di instaurare un processo di pianificazione volto a rendere fungibili le competenze, che possano porre le basi per agevolare, nel lungo periodo, il processo di rotazione. In una logica di formazione dovrebbe essere privilegiata una organizzazione del lavoro che preveda periodi di affiancamento del responsabile di una certa attività, con un altro operatore che nel tempo potrebbe sostituirlo. Cosi’ come dovrebbe essere privilegiata la circolarità delle informazioni attraverso la cura della trasparenza interna delle attività, che, aumentando la condivisione delle conoscenze professionali per l’esercizio di determinate attività, conseguentemente aumenta le possibilità di impiegare per esse personale diverso. Misure alternative in caso di impossibilità di rotazione Non sempre la rotazione è misura che si può realizzare, specie all’interno di amministrazioni di piccole dimensioni. In casi del genere è necessario che le amministrazioni motivino adeguatamente nel PTPC le ragioni della mancata applicazione dell’istituto. In questi casi le amministrazioni sono comunque tenute ad adottare misure per evitare che il soggetto non sottoposto a rotazione abbia il controllo esclusivo dei processi, specie di quelli più esposti al rischio di corruzione. In particolare dovrebbero essere sviluppate altre misure organizzative di prevenzione che sortiscano un effetto analogo a quello della rotazione, a cominciare, ad esempio, da quelle di trasparenza. A titolo esemplificativo potrebbero essere previste dal dirigente modalità operative che favoriscano una maggiore compartecipazione del personale alle attività del proprio ufficio. Inoltre, perlomeno nelle aree identificate come più a rischio e per le istruttorie più delicate, potrebbero essere promossi meccanismi di condivisione delle fasi procedimentali, prevedendo di affiancare al funzionario istruttore un altro funzionario, in modo che, ferma restando l’unitarietà della responsabilità del procedimento a fini di interlocuzione esterna, più soggetti condividano le valutazioni degli elementi rilevanti per la decisione finale dell’istruttoria. Altro criterio che potrebbe essere adottato, in luogo della rotazione, è quello di attuare una corretta articolazione dei compiti e delle competenze. Infatti, la concentrazione di più mansioni e più responsabilità in capo ad un unico soggetto può esporre l’amministrazione a rischi come quello che il medesimo soggetto possa compiere errori o tenere comportamenti scorretti senza che questi vengano alla luce. Sarebbe auspicabile, quindi, che nelle aree a rischio le varie fasi procedimentali siano affidate a più persone, avendo cura in particolare che la responsabilità del procedimento sia sempre assegnata ad un soggetto diverso dal dirigente, cui compete l’adozione del provvedimento finale. Attuazione della rotazione Per l’attuazione della misura è necessario che l’amministrazione nel proprio PTPC chiarisca i criteri, individui la fonte di disciplina e sviluppi un’adeguata programmazione della rotazione. Tali contenuti sono mirati ad evitare che la rotazione sia impiegata al di fuori di un programma predeterminato e possa essere intesa o effettivamente utilizzata in maniera non funzionale alle esigenze di prevenzione di fenomeni di cattiva amministrazione e corruzione. – Criteri della rotazione e informativa sindacale Il PTPC deve indicare i criteri della rotazione. Tra i criteri vi sono, ad esempio: a) quello dell’individuazione degli uffici da sottoporre a rotazione; b) la fissazione della periodicità della rotazione; c) le caratteristiche della rotazione, se funzionale o territoriale. Sui criteri di rotazione declinati nel PTPC le amministrazioni devono dare preventiva e adeguata informazione alle organizzazioni sindacali, ciò al fine di consentire a queste ultime di presentare proprie osservazione e proposte. Ciò non comporta l’apertura di una fase di negoziazione in materia. – Fonti della disciplina in materia di rotazione Se è necessario che il PTPC di ogni amministrazione contenga i criteri di rotazione, lo stesso, invece, può rinviare la disciplina della rotazione a ulteriori atti organizzativi. A tal fine possono essere utili i regolamenti di organizzazione sul personale o altri provvedimenti di carattere generale già adottati. Il PTPC è necessario chiarisca sempre qual è l’atto a cui si rinvia. Per quanto riguarda la rotazione dei dirigenti, il PTPC potrà rinviare alla disciplina più specifica quale la “direttiva incarichi” o atti equivalenti. – Programmazione pluriennale della rotazione È fondamentale che la rotazione sia programmata su base pluriennale, tenendo in considerazione i vincoli soggettivi e oggettivi come sopra descritti, dopo che sono state individuate le aree a rischio corruzione e al loro interno gli uffici maggiormente esposti a fenomeni corruttivi. Ciò consente di rendere trasparente il processo di rotazione e di stabilirne i nessi con le altre misure di prevenzione della corruzione. La programmazione della rotazione richiede non solo il coordinamento del RPCT, ma anche e soprattutto il forte coinvolgimento di tutti i dirigenti e dei referenti del RPCT, se presenti all’interno della struttura. Come ogni misura specifica, la rotazione deve essere calibrata in relazione alle caratteristiche peculiari di ogni struttura (dimensione e relativa dotazione organica, qualità del personale addetto, modalità di funzionamento degli uffici, distribuzione del lavoro e delle mansioni). – Gradualità della rotazione Tenuto conto dell’impatto che la rotazione ha sull’intera struttura organizzativa, è consigliabile programmare la stessa secondo un criterio di gradualità per mitigare l’eventuale rallentamento dell’attività ordinaria. A tal fine dovranno essere considerati, innanzitutto, gli uffici più esposti al rischio di corruzione, per poi considerare gli uffici con un livello di esposizione al rischio più basso. Con specifico riferimento al personale non dirigenziale, il criterio della gradualità implica, ad esempio, che le misure di rotazione riguardino in primo luogo i responsabili dei procedimenti nelle aree a più elevato rischio di corruzione e il personale addetto a funzioni e compiti a diretto contatto con il pubblico. Allo scopo di evitare che la rotazione determini un repentino depauperamento delle conoscenze e delle competenze complessive dei singoli uffici interessati, potrebbe risultare utile programmare in tempi diversi, e quindi non simultanei, la rotazione dell’incarico dirigenziale e del personale non dirigenziale all’interno di un medesimo ufficio. – Monitoraggio e verifica Nel PTPC è necessario siano indicate le modalità attraverso cui il RPCT effettua il monitoraggio riguardo all’attuazione delle misure di rotazione previste e al loro coordinamento con le misure di formazione. In ogni caso, tanto gli organi di indirizzo politico amministrativo che i dirigenti generali, con riferimento rispettivamente agli incarichi dirigenziali di livello generale e al personale dirigenziale, sono tenuti a mettere a disposizione del RPCT ogni informazione utile per comprendere come la misura venga progressivamente applicata e quali siano le eventuali difficoltà riscontrate. Analogamente, il dirigente con responsabilità in materia di formazione rende disponibile al RPCT ogni informazione richiesta da quest’ultimo sull’attuazione delle misure di formazione coordinate con quelle di rotazione. Nella relazione annuale il RPCT espone il livello di attuazione delle misure di rotazione e delle relative misure di formazione, motivando gli eventuali scostamenti tra misure pianificate e realizzate. Quest’ultima, insieme alle segnalazioni comunque pervenute all’Autorità, costituirà una base informativa di grande rilievo da cui muoverà l’azione di vigilanza di ANAC. Rotazione del personale dirigenziale Per quanto riguarda i dirigenti la rotazione ordinaria è opportuno venga programmata e sia prevista nell’ambito dell’atto generale approvato dall’organo di indirizzo politico, contenente i criteri di conferimento degli incarichi dirigenziali che devono essere chiari e oggettivi. Il PTPC di ogni amministrazione deve fare riferimento a tale atto generale (come, ad esempio, la Direttiva ministeriale che disciplina gli incarichi dirigenziali) ove vengono descritti i criteri e le modalità per la rotazione dirigenziale. Ciò anche per evitare che la rotazione possa essere impiegata in modo poco trasparente, limitando l’indipendenza della dirigenza. Per il personale dirigenziale, la disciplina è applicabile ai dirigenti di prima e di seconda fascia, o equiparati. Negli uffici individuati come a più elevato rischio di corruzione, sarebbe preferibile che la durata dell’incarico fosse fissata al limite minimo legale. Alla scadenza, la responsabilità dell’ufficio o del servizio dovrebbe essere di regola affidata ad altro dirigente, a prescindere dall’esito della valutazione riportata dal dirigente uscente. Invero, l’istituto della rotazione dirigenziale, specie in determinate aree a rischio, dovrebbe essere una prassi “fisiologica”, mai assumendo carattere punitivo e/o sanzionatorio. Essendo la rotazione una misura che ha effetti su tutta l’organizzazione di un’amministrazione, progressivamente la rotazione dovrebbe essere applicata anche a quei dirigenti che non operano nelle aree a rischio. Ciò tra l’altro sarebbe funzionale anche a evitare che nelle aree di rischio ruotino sempre gli stessi dirigenti. La mancata attuazione della rotazione deve essere congruamente motivata da parte del soggetto tenuto all’attuazione della misura. – In prospettiva: rotazione del personale dirigenziale in relazione alla legge 7 agosto 2015 n. 124 (c.d. Legge Madia) Le questioni organizzative che si pongono a proposito della rotazione della dirigenza sono di diverso tenore. Una decisa influenza su di esse avrà l’effettiva adozione del decreto legislativo di attuazione di quanto disposto dall’art. 11 della l. 124/2015, che prevede la costituzione di ruoli unici per la dirigenza e soprattutto modalità di affidamento degli incarichi dirigenziali attraverso un “interpello” al quale possono rispondere tutti i dirigenti appartenenti ai ruoli. Tutto questo, in prospettiva, potrà favorire la rotazione dei dirigenti fino a rendere probabilmente ininfluente l’elemento della limitata disponibilità di dirigenti nelle amministrazioni di piccole e medie dimensioni, potendo queste contare su un mercato delle professionalità dirigenziali reso più ampio. Rotazione del personale non dirigenziale La rotazione ordinaria del personale non dirigenziale può essere effettuata o all’interno dello stesso ufficio o tra uffici diversi nell’ambito della stessa amministrazione. La rotazione è applicabile anche ai titolari di posizione organizzativa, nei casi in cui nell’amministrazione il personale dirigenziale sia carente o del tutto assente. Può essere citato, quale esempio di best practice, quello messo in atto da un Comune del nord Italia che ha favorito la rotazione tra i propri funzionari, attraverso una procedura di interpello per individuare candidature a ricoprire ruoli di posizione organizzativa e alta professionalità, nonchè prevedendo la non rinnovabilità dello stesso incarico per quanto riguarda i titolari delle posizioni organizzative (9). – Rotazione nell’ambito dello stesso ufficio Il personale potrebbe essere fatto ruotare nello stesso ufficio periodicamente, con la rotazione c.d. “funzionale”, ossia con un’organizzazione del lavoro basata su una modifica periodica dei compiti e delle responsabilità affidati ai dipendenti. Ciò può avvenire, ad esempio, facendo ruotare periodicamente i responsabili dei procedimenti o delle relative istruttorie; applicando anche la rotazione dei funzionari che facciano parte di commissioni interne all’ufficio o all’amministrazione. Ancora, a titolo esemplificativo, nel caso di uffici a diretto contatto con il pubblico che hanno anche competenze di back office, si potrebbe prevedere l’alternanza di chi opera a diretto contatto con il pubblico, in alcuni uffici (es. Soprintendenze) potrebbe essere opportuno modificare periodicamente l’ambito delle competenze territoriali affidate a ciascun funzionario. – Rotazione nella stessa amministrazione tra uffici diversi Nell’ambito della programmazione della rotazione, può essere prevista una rotazione funzionale tra uffici diversi. La durata di permanenza nell’ufficio deve essere prefissata da ciascuna amministrazione secondo criteri di ragionevolezza, tenuto conto anche delle esigenze organizzative. In altro modo, nelle strutture complesse o con articolazioni territoriali, la rotazione può avere carattere di “rotazione territoriale”, nel rispetto delle garanzie accordate dalla legge in caso di spostamenti di questo tipo. Sull’argomento l’ANAC è intervenuta evidenziando come la rotazione territoriale possa essere scelta dall’amministrazione ove la stessa sia più funzionale all’attività di prevenzione e non si ponga in contrasto con il buon andamento e la continuità dell’attività amministrativa, a condizione che i criteri di rotazione siano previsti nel PTPC o nei successivi atti attuativi e le scelte effettuate siano congruamente motivate (10). – In prospettiva: rotazione tra amministrazioni diverse Attualmente non vi sono le condizioni normative per realizzare la rotazione fra amministrazioni diverse. L’art. 30, co. 1, del d.lgs. 165/2001, come novellato dal d.l. 90/2014, ha previsto che le amministrazioni possono ricoprire i posti vacanti in organico mediante passaggio diretto di dipendenti. Il medesimo art. 30, co. 2, dispone che i dipendenti possono essere trasferiti, previo accordo tra le amministrazioni interessate, in altra amministrazione, in sedi collocate nel territorio dello stesso comune ovvero a distanza non superiore a cinquanta chilometri dalla sede cui sono adibiti. Mobilità e rotazione, però, in tal caso, rispondono, tuttavia, a finalità diverse. La mobilità di personale può favorire il crearsi delle condizioni che rendono possibile la rotazione, specie laddove esistono carenze di organico. In prospettiva, l’Autorità auspica modifiche legislative che possano consentire la rotazione tra amministrazioni, valorizzando forme aggregative attraverso convenzioni fra enti territoriali limitrofi e uniformi (comuni, aziende sanitarie, zone sociali) o unioni di comuni. Al riguardo, l’Autorità si riserva di fare un’apposita segnalazione al Governo e al Parlamento. 7.2.3 Rotazione straordinaria nel caso di avvio di procedimenti penali o disciplinari per condotte di natura corruttiva Come già sopra richiamato, l’art. 16, co. 1, lett. l-quater) del d.lgs. 165/2001 dispone che i dirigenti degli uffici dirigenziali generali «provvedono al monitoraggio delle attività nell’ambito delle quali è più elevato il rischio corruzione svolte nell’ufficio a cui sono preposti, disponendo, con provvedimento motivato, la rotazione del personale nei casi di avvio di procedimenti penali o disciplinari per condotte di natura corruttiva» (11), senza ulteriori specificazioni. Naturalmente restano ferme le altre misure previste in relazione alle varie forme di responsabilità. Certamente dalla stessa si desume l’obbligo per l’amministrazione di assegnare il personale sospettato di condotte di natura corruttiva, che abbiano o meno rilevanza penale, ad altro servizio. Si tratta, quindi, di una misura di carattere eventuale e cautelare tesa a garantire che nell’area ove si sono verificati i fatti oggetto del procedimento penale o disciplinare siano attivate idonee misure di prevenzione del rischio corruttivo. Per quanto attiene all’ambito soggettivo di applicazione, dal testo normativo sembra evincersi che detta forma di rotazione in quanto applicabile al “personale” sia da intendersi riferibile sia al personale dirigenziale, sia non dirigenziale. Ulteriore elemento che avvalora la tesi prospettata deriva dalla lettura sistematica della norma che è collocata nel Capo II, Dirigenza e, pertanto, la rotazione potrebbe essere ipotizzata almeno nei confronti dei dirigenti di seconda fascia, che potrebbero essere fatti ruotare con decisione del direttore generale. Mentre per il personale non dirigenziale la rotazione si traduce in una assegnazione del dipendente ad altro ufficio o servizio, nel caso di personale dirigenziale, ha modalità applicative differenti comportando la revoca dell’incarico dirigenziale e, se del caso, la riattribuzione di altro incarico. Per quanto attiene all’ambito oggettivo, e dunque alle fattispecie di illecito che l’amministrazione è chiamata a tenere in conto ai fini della decisione di far scattare o meno la misura della rotazione straordinaria, vista l’atipicità del contenuto della condotta corruttiva indicata dalla norma e, in attesa di chiarimenti da parte del legislatore, si riterrebbe di poter considerare potenzialmente integranti le condotte corruttive anche i reati contro la Pubblica amministrazione e, in particolare, almeno quelli richiamati dal d.lgs. 39/2013 che fanno riferimento al Titolo II, Capo I «Dei delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica amministrazione», nonchè quelli indicati nel d.lgs. 31 dicembre 2012 , n. 235 (12). Oltre ai citati riferimenti, più in generale, l’amministrazione potrà porre a fondamento della decisione di far ruotare il personale la riconduzione del comportamento posto in essere a condotta di natura corruttiva e dunque potranno conseguentemente essere considerate anche altre fattispecie di reato. In ogni caso, l’elemento di particolare rilevanza da considerare ai fini dell’applicazione della norma, è quello della motivazione adeguata del provvedimento con cui viene disposto lo spostamento. Si evidenzia, infine, che il Presidente dell’ANAC è destinatario delle informative del pubblico ministero quando esercita l’azione penale per i delitti di cui agli articoli 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353 e 353-bis del codice penale, ai sensi dell’art. 129, co. 3, delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al d.lgs. 28 luglio 1989 n. 271, come modificato dalla legge 27 maggio 2015 n. 69. In tal modo l’Autorità, informata dell’esistenza di fatti corruttivi, potrà esercitare i poteri previsti ai sensi dell’art. 1, co. 3, l. 190/2012, chiedendo all’amministrazione pubblica coinvolta nel processo penale l’attuazione della misura della rotazione. 7.3 Verifica delle dichiarazioni sulla insussistenza delle cause di inconferibilità Tra le misure da programmare nel PTPC vi sono quelle relative alle modalità di attuazione delle disposizioni del d.lgs. 39/2013, con particolare riferimento alle verifiche e ai controlli dell’insussistenza di cause di inconferibilità e di incompatibilità di incarichi. L’Autorità si è più volta pronunciata su tale materia e sta adottando linee guida relative al ruolo e funzioni del RPCT nel procedimento di accertamento delle inconferibilità e delle incompatibilità, cui si rinvia. 7.4 Revisione dei processi di privatizzazione e esternalizzazione di funzioni, attività strumentali e servizi pubblici La costituzione di enti di diritto privato (società, associazioni, fondazioni) partecipate o controllate da pubbliche amministrazioni è un fenomeno molto esteso, che negli ultimi tempi è stato oggetto di attenzione da parte del legislatore, sia sotto il profilo della moltiplicazione della spesa pubblica (spending review), sia sotto il profilo dell’inefficienza della gestione. Il fenomeno comprende la costituzione di soggetti o totalmente partecipati dall’amministrazione, ovvero controllati per via di una partecipazione maggioritaria al capitale sociale, ovvero solo partecipati in via minoritaria. In totale, secondo la relazione ISTAT 2015, si tratterebbe di 7.757 enti. A tali soggetti vengono sempre più spesso affidate, con procedure diverse, che vanno dall’affidamento diretto, anche previa procedura comparativa per la scelta del socio privato, fino all’affidamento in applicazione del codice dei contratti pubblici, attività di pubblico interesse, che possono consistere: a) nello svolgimento di vere e proprie funzioni pubbliche; b) nell’erogazione, a favore dell’amministrazione affidante, di attività strumentali (circa 3.000 società strumentali, sempre secondo la stessa fonte); c) nell’erogazione, a favore delle collettività di cittadini, di servizi pubblici (nella duplice accezione, di derivazione comunitaria, di “servizi di interesse generale” e di “servizi di interesse economico generale” (circa 1.700 società). Molti di questi soggetti hanno caratteri, quanto al numero di addetti o al valore della produzione, del tutto inadeguati al perseguimento dei fini istituzionali, ovvero svolgono attività di pubblico interesse che si sovrappongono a quelle svolte dalle pubbliche amministrazioni. Per questi motivi il legislatore si è posto l’obiettivo di rivedere l’intera politica di costituzione di tali enti di diritto privato, al fine di evitare di costituire nel futuro enti destinati allo spreco di risorse pubbliche e di ridurre in modo consistente la partecipazione pubblica in tali soggetti, anche attraverso la soppressione di enti e attraverso processi di “reinternalizzazione” (cioè di riconduzione di compiti alla competenza di uffici delle stesse amministrazioni) delle attività di pubblico interesse. In questa prospettiva si è posta la l. 124/2015, in particolare all’art. 18, nel delegare il Governo alla adozione di un decreto legislativo, vero e proprio Testo Unico, «per il riordino della disciplina in materia di partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche». In attuazione della delega il Governo ha adottato in via preliminare, il 20 gennaio 2016, uno schema di decreto, cui si è fatto riferimento nei precedenti paragrafi in merito alla definizione delle società controllate, partecipate e quotate, che ha a oggetto «la costituzione di società da parte di amministrazioni pubbliche nonchè l’acquisto, il mantenimento e la gestione di partecipazioni da parte di tali amministrazioni in società a totale o parziale partecipazione pubblica, diretta o indiretta». La nuova disciplina riguarda, quindi, gli enti in forma di società (per azioni o a responsabilità limitata), ma non gli enti in forma associativa e di fondazione (art. 1, co. 4). La nuova disciplina, al fine di perseguire gli scopi della riconduzione delle partecipazioni al perseguimento dei fini istituzionali dell’amministrazione e del massimo risparmio di risorse pubbliche, detta regole più stringenti sulle procedure di scelta quanto alla costituzione di nuove società o al mantenimento di partecipazioni in atto, che devono essere oggetto di “analitica motivazione” (art. 5) e di una annuale analisi dell’assetto delle società di cui detengono partecipazione, anche attraverso un “piano di riassetto” o di “razionalizzazione” (art. 20). Sono, poi, dettate norme sulle finalità perseguibili con la partecipazione in società (art. 4), sull’organizzazione e gestione delle società a controllo pubblico, quali l’adozione di contabilità separate per la distinzione tra attività di pubblico interesse e attività “svolte in regime di economia di mercato”, la valutazione del rischio aziendale, l’adozione di più qualificati strumenti di “governo societario” (art. 6), la gestione del personale secondo regole sul reclutamento che avvicinino tali società al regime del lavoro con le pubbliche amministrazioni (art. 19). Il legislatore persegue, quindi, in materia di società partecipate, un obiettivo di razionalizzazione e di più netta distinzione tra attività di pubblico interesse, che possono giustificare il mantenimento di società in controllo o di partecipazioni minoritarie, e attività economiche di mercato, da lasciare a soggetti privati non partecipati, soprattutto al fine di garantire la libera concorrenza e la riduzione degli sprechi di risorse pubbliche. Considerato dal punto di vista della prevenzione della corruzione e della trasparenza il fenomeno qui esaminato (tenendo conto quindi anche degli enti di diritto privato diversi dalle società) presenta specifiche criticità che l’Autorità ha potuto rilevare anche nello svolgimento della sua attività di vigilanza, quali: a) la minore garanzia di imparzialità di coloro che operano presso gli enti, sia per quanto riguarda gli amministratori sia per quanto riguarda i funzionari, soprattutto quando gli enti siano chiamati a svolgere attività di pubblico interesse di particolare rilievo (si pensi allo svolgimento di funzioni pubbliche affidate, ovvero allo svolgimento di attività strumentali strettamente connesse con le funzioni pubbliche principali dell’amministrazione). Per gli amministratori valgono norme attenuate quanto ai requisiti di nomina e norme solo civilistiche di responsabilità. Per i dipendenti (con qualifica dirigenziale o meno) non viene applicato il principio del pubblico concorso; b) la maggiore distanza tra l’amministrazione affidante e il soggetto privato affidatario, con maggiori difficoltà nel controllo delle attività di pubblico interesse affidate; il problema è aggravato dal fatto che in molti casi l’esternalizzazione delle attività è motivata proprio dall’assenza, nell’amministrazione, di competenze professionali adeguate; in questi casi l’attività è svolta dall’ente privato e l’amministrazione si può trovare nella difficoltà di controllarne l’operato perchè non è nelle condizioni di costituire adeguati uffici allo scopo; c) il moltiplicarsi di situazioni di conflitto di interessi in capo ad amministratori che siano titolari anche di interessi in altre società e enti di diritto privato; d) la maggiore esposizione delle attività di pubblico interesse affidate agli enti privati alle pressioni di interessi particolari, spesso dovuta al fatto obiettivo dello svolgimento di compiti rilevanti connessi all’esercizio di funzioni pubbliche (si pensi ad attività istruttorie svolte a favore degli uffici dell’amministrazioni) senza le garanzie di imparzialità e di partecipazione della legge sul procedimento amministrativo. Nella prospettiva della prevenzione della corruzione, pertanto, il presente PNA ritiene di indicare alle amministrazioni pubbliche, titolari di partecipazioni, soprattutto di controllo, in enti di diritto privato, ivi comprese quindi le associazioni e le fondazioni, una serie di misure, coerenti con il processo di revisione delle partecipazioni avviato con il testo unico di attuazione dell’art. 18 della l. 124/2015, ma mirate in modo specifico alla maggiore imparzialità e alla trasparenza, con particolare riguardo per le attività di pubblico interesse affidate agli enti partecipati. • È opportuno che le amministrazioni considerino i profili della prevenzione della corruzione tra quelli da tenere in conto nei piani di riassetto e razionalizzazione delle partecipazioni. In questa prospettiva le amministrazioni valutano, ai fini dell’analitica motivazione per la costituzione di nuovi enti o del mantenimento di partecipazione in essere, se la forma privatistica sia adeguata alla garanzia dell’imparzialità e della trasparenza delle funzioni affidate, considerando, a tal fine, ipotesi di “reinternalizzazione” dei compiti affidati. • Le amministrazioni valutano se sia necessario limitare l’esternalizzazione dei compiti di interesse pubblico. Ciò vale in particolare con riferimento alle attività strumentali; le amministrazioni dovrebbero vigilare perchè siano affidate agli enti privati partecipati le sole attività strumentali più “lontane” dal diretto svolgimento di funzioni amministrative. Ad esempio, se possono essere utilmente esternalizzate attività di manutenzione o di pulizia, maggiore attenzione dovrebbe porsi per attività quali lo svolgimento di accertamenti istruttori relativi a procedimenti amministrativi o le stesse attività di informatizzazione di procedure amministrative. • Laddove si ritenga utile costituire una società mista secondo la vigente normativa in materia, le amministrazioni individuano il socio privato con procedure concorrenziali, vigilando attentamente sul possesso, da parte dei privati concorrenti, di requisiti non solo economici e professionali, ma anche di quelli attinenti la moralità e onorabilità. • Le amministrazioni sottopongono gli enti partecipati a più stringenti e frequenti controlli sugli assetti societari e sullo svolgimento delle attività di pubblico interesse affidate. In particolare, occorre avere riguardo alle procedure di affidamento di lavori, servizi e forniture, alle procedure di espropriazione di pubblico interesse, all’erogazione di servizi di interesse generale e di interesse economico generale. L’esternalizzazione può, infatti, giustificarsi in termini di maggiore efficienza, efficacia e economicità, ma non in termini di attenuazione delle garanzie di imparzialità. Nella valutazione di scelte organizzative tra esternalizzazione o reinternalizzazione va considerato anche il profilo della capacità dell’amministrazione di svolgere adeguati controlli. • Sempre qualora si ritenga di mantenere in vita enti di diritto privato a controllo pubblico destinati allo svolgimento di attività di pubblico interesse, le amministrazioni promuovono negli statuti di questi enti, la separazione, anche dal punto di vista organizzativo, di tali attività da quelle svolte in regime di concorrenza e di mercato. Qualora la separazione organizzativa sia complessa, è necessario adottare il criterio della separazione contabile tra le due tipologie di attività. • Occorre promuovere l’introduzione negli enti di diritto privato a controllo pubblico (cosi’ come definiti dal testo unico attuativo dell’art. 18 della l. 124/2015), quanto alla disciplina del personale, di regole che avvicinino tale personale a quello delle pubbliche amministrazioni, ai fini della garanzia dell’imparzialità. Ciò comporta, nel rispetto dei principi richiamati dall’art. 19, co. 3, dello schema di testo unico, l’adozione di procedure concorsuali per il reclutamento, sottratte alla diretta scelta degli amministratori degli enti, nonchè procedure di affidamento di incarichi equivalenti agli incarichi dirigenziali nelle pubbliche amministrazioni che diano analoghe garanzie di imparzialità, soprattutto qualora tali incarichi siano relativi ad uffici cui sono affidate le attività di pubblico interesse (nella misura in cui è stato possibile separare organizzativamente tali uffici). Comporta altresi’ il riconoscimento in capo ai responsabili di tali uffici (comunque delle attività di pubblico interesse) di garanzie di autonomia gestionale comparabili con quelle riconosciute ai dirigenti delle pubbliche amministrazioni. Comporta, poi, l’applicazione a questo personale delle regole sulla trasparenza secondo quanto previsto dal d.lgs. 33/2013. Le amministrazioni promuovono, infine, l’applicazione al personale degli enti a controllo pubblico dei codici di comportamento, vigilando anche sugli effetti giuridici, in termini di responsabilità disciplinare, della violazione dei doveri previsti nei codici, in piena analogia con quanto è disposto per il personale delle pubbliche amministrazioni. 7.5 Whistleblowing La tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti è stata introdotta nel nostro ordinamento quale misura di prevenzione della corruzione, imponendo peraltro alle amministrazioni di individuare una procedura finalizzata a garantire tale tutela e a stimolare le segnalazioni da parte del dipendente. Quale misura di prevenzione della corruzione, il whistleblowing deve trovare posto e disciplina in ogni PTPC. A tal proposito è visto con favore da parte di questa Autorità l’inserimento di misure che vadano nella prospettiva di riforma dell’istituto di seguito elencate. Per colmare le lacune della norma e indirizzare le amministrazioni nell’utilizzo di tale strumento di prevenzione della corruzione l’Autorità ha adottato la determinazione n. 6 del 28 aprile 2015 «Linee guida in materia di tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti» da ritenersi integralmente qui recepita. Si sottolinea la necessità che la segnalazione, ovvero la denuncia, sia “in buona fede”: la segnalazione è effettuata nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione; l’istituto, quindi, non deve essere utilizzato per esigenze individuali, ma finalizzato a promuovere l’etica e l’integrità nella pubblica amministrazione. Particolare attenzione deve essere posta dai vertici dell’amministrazione e dal RPCT affinchè non si radichino, in conseguenza dell’attività svolta dal RPCT, comportamenti discriminatori. Si richiamano, infine, le pubbliche amministrazioni al rispetto dell’art. 54-bis del d.lgs. 165/2001 e, in particolar modo, si evidenzia che non vi è una gerarchia fra i canali di segnalazioni previsti dal legislatore, non dovendosi, quindi, sanzionare (disciplinarmente) il dipendente che non si rivolge all’interno della propria amministrazione per denunciare situazioni di maladministration. Si ricorda che l’Autorità si sta dotando di una piattaforma Open Source basata su componenti tecnologiche stabili e ampiamente diffuse: si tratta di un sistema in grado di garantire, attraverso l’utilizzazione di tecnologie di crittografia moderne e standard, la tutela della confidenzialità dei questionari e degli allegati, nonchè la riservatezza dell’identità dei segnalanti. La piattaforma sarà messa a disposizione delle amministrazioni, consentendo cosi’ da parte di ciascuna di esse un risparmio di risorse umane e finanziarie nel dotarsi della tecnologia necessaria per adempiere al disposto normativo. PARTE SPECIALE – APPROFONDIMENTI I – PICCOLI COMUNI Premessa Le indicazioni fornite in questo approfondimento del PNA sono rivolte ai piccoli comuni, enti locali di dimensioni organizzative ridotte, che, anche dall’esame dei PTPC dall’Autorità, presentano difficoltà nell’applicazione della normativa anticorruzione e trasparenza, spesso a causa dell’esiguità di risorse umane e finanziarie a disposizione. Lo stesso legislatore, nella novellata disciplina in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza, ha rivolto particolare attenzione a tali enti al fine di agevolare l’applicazione della normativa, individuando modalità organizzative e attuative semplificate. 1. I “piccoli comuni” nella normativa di prevenzione della corruzione Per delimitare l’ambito di applicazione delle indicazioni relative ai piccoli comuni, occorre identificare un criterio idoneo ad assicurare chiarezza nell’applicazione della disciplina in tema di prevenzione della corruzione. Si ritiene che tale criterio possa essere rappresentato dal numero di abitanti, facendo rientrare nel novero dei piccoli comuni quelli con popolazione inferiore a 15.000 abitanti. Tale criterio riprende quello utilizzato dagli artt. 71 e 73 del decreto legislativo 8 agosto 2000, n. 267 (Testo Unico degli Enti Locali, di seguito TUEL) per disciplinare i differenti sistemi elettorali vigenti negli enti locali. Esso distingue i comuni in due categorie a seconda che il numero di abitanti sia inferiore o superiore a 15.000 riconoscendo, per quelli rientranti nella prima categoria, rilevanti semplificazioni. L’Autorità, inoltre, ha tenuto conto di quanto previsto nell’art. 3, co. 1-ter, del d.lgs. 33/2013, introdotto dal d.lgs. 97/2016, che dispone che «L’Autorità nazionale anticorruzione può, con il Piano Nazionale Anticorruzione, nel rispetto delle disposizioni del presente decreto, precisare gli obblighi di pubblicazione e le relative modalità di attuazione, in relazione alla natura dei soggetti, alla loro dimensione organizzativa e alle attività svolte, prevedendo in particolare modalità semplificate per i comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti, per gli ordini e collegi professionali». È stata altresi’ seguita un’indicazione di fondo sul favore per forme associative al fine della predisposizione dei PTPC espressa nell’art. 1, co. 6, della l. 190/2012, come sostituito dal d.lgs. 97/2016, secondo cui «i comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti possono aggregarsi per definire in comune, tramite accordi ai sensi dell’articolo 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241, il piano triennale per la prevenzione della corruzione, secondo le indicazioni contenute nel Piano nazionale anticorruzione». 2. Valutazione dei PTPC dei piccoli comuni Dall’analisi del campione di PTPC 2016 di piccoli comuni (13) svolta dall’Autorità si è rafforzata la convinzione della necessità di interventi di semplificazione dell’attuazione della normativa per gli enti di piccoli dimensioni, in una logica di ausilio e sostegno e non derogatoria della normativa. Ciò al fine di fornire ai piccoli comuni un supporto per evitare che le attività di individuazione e attuazione delle misure organizzative di prevenzione della corruzione siano intese come un mero adempimento burocratico, piuttosto che come un processo costante e sinergico finalizzato alla ricerca di maggiore funzionalità e – di conseguenza – alla prevenzione di fenomeni di maladministration. Gli esiti della valutazione hanno evidenziato in particolare, rispetto a quanto già riportato nel § 2 della parte generale, le seguenti criticità: – difficoltà di individuare eventi rischiosi e di effettuare la gestione del rischio; – carente analisi del contesto esterno ed interno in oltre la metà dei PTPC analizzati e la quasi totale assenza di un sistema di monitoraggio sull’implementazione del PTPC; – genericità delle misure individuate, presentate per lo più in forma di elenco e prevalentemente limitate a quelle relative alla formazione, al whistleblowing e al codice di comportamento; – insufficienti o generiche indicazioni delle prerogative attribuite al RPCT per lo svolgimento dei propri compiti. 3. Prevenzione della corruzione nelle forme associative tra enti locali Alla luce delle valutazioni riportate sopra, si ritiene che l’esigua dimensione organizzativa, la proiezione esclusivamente locale delle scelte amministrative e la conseguente frammentazione della strategia di contrasto alla corruzione tra le molteplici realtà locali rappresentino gravi ostacoli a un efficace contrasto alla corruzione. Le indicazioni che seguono, pertanto, sono principalmente indirizzate a favorire forme di aggregazione tra i comuni che consentano, da un lato, di garantire idoneità di risorse e mezzi e dall’altro di assicurare una risposta alla corruzione non solo locale ma più propriamente territoriale e unitaria. A questo scopo, alcune delle semplificazioni e degli adattamenti proposti si rivolgono esclusivamente ai comuni che abbiano deciso di operare in forma associata, mediante le unioni di comuni, le convenzioni e gli accordi, come previsto dall’art. 41, co. 1, lett. e) del d.lgs. 97/2016. Altre semplificazioni, di carattere generale, destinate tanto alle unioni e alle convenzioni quanto ai singoli comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti, sono invece analizzate nel § 4. Il favor per l’associazione delle funzioni sembra in linea con l’attuale processo legislativo di riorganizzazione degli enti locali di piccole dimensioni. Ci si riferisce, in particolare, a quanto previsto dall’art. 14, co. 31 ter, del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78 (convertito dalla legge 30 luglio 2010, n. 122) «Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica» che introduce, per i comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, l’obbligo della gestione associata delle funzioni fondamentali tramite unione o convenzione da attuare, a seguito di proroghe successive, entro il 31 dicembre 2016. Con riferimento al tema delle funzioni fondamentali, si ritiene opportuno precisare fin da ora che, ad avviso dell’Autorità, le attività in tema di anticorruzione e trasparenza, per le implicazioni gestionali e operative che comportano, dovrebbero essere considerate all’interno della funzione di organizzazione generale dell’amministrazione, a sua volta annoverata tra quelle fondamentali dall’art. 14, co. 27, del già citato d.l. 78/2010. In base alle considerazioni esposte, si ritiene di dover far leva sul ricorso a unioni di comuni e a convenzioni, oltre che ad accordi, come previsto dal d.lgs. 97/2016, per stabilire modalità operative semplificate, sia per la predisposizione del PTPC sia per la nomina del RPCT. Si precisa che l’applicabilità delle indicazioni del presente paragrafo prescinde dal numero complessivo di abitanti dei comuni che fanno parte dell’unione o della convenzione. Il ricordato favor del legislatore verso le forme di esercizio associato delle funzioni fondamentali comporta che le semplificazioni qui proposte riguardino forme associative tra piccoli comuni, ma anche forme associative tra piccoli comuni e comuni medio-grandi, con le quali si raggiungono dimensioni organizzative dell’amministrazione comunale più adeguate, tanto in termini di funzionalità generale quanto in termini di prevenzione della corruzione. 3.1 Unioni di comuni Dall’esame condotto sui PTPC è emerso che le unioni di comuni istituite ai sensi dell’art. 32 del TUEL (enti locali con autonoma personalità giuridica di diritto pubblico rispetto ai comuni aggregati (14) ), hanno già svolto un ruolo di coordinamento nell’azione di prevenzione della corruzione. In alcuni casi le unioni, infatti, non solo hanno approvato un proprio PTPC con riferimento alle funzioni trasferite dai comuni aderenti e per le relative aree di rischio ma hanno, al contempo, coordinato la formazione finalizzata alla stesura dei PTPC dei singoli comuni, essendo questi ultimi, comunque, obbligati ad adottare un Piano con riferimento alle funzioni non trasferite. Il coordinamento nell’elaborazione dei PTPC ha consentito di semplificare l’attività dei singoli comuni coinvolti mediante la condivisione del processo di individuazione delle aree di rischio e dei criteri di valutazione dello stesso, ma soprattutto attraverso l’analisi del contesto esterno che ha considerato l’intero territorio dell’unione. Di seguito sono indicati gli adattamenti della disciplina in tema di prevenzione della corruzione sia con riferimento alla predisposizione, adozione e attuazione del PTPC, sia con riferimento alla nomina e alle funzioni del RPCT. Le indicazioni che seguono trovano applicazione: – per le unioni istituite per l’esercizio obbligatorio delle funzioni fondamentali; – per le unioni istituite per l’esercizio associato facoltativo di specifiche funzioni. 3.1.1 Il Piano triennale di prevenzione della corruzione In caso di unione di comuni, si può prevedere la predisposizione di un unico PTPC distinguendo, in applicazione del criterio dell’esercizio della funzione, a seconda se ci si riferisca a: – funzioni svolte direttamente dall’unione; – funzioni rimaste in capo ai singoli comuni. Rientrano tra le competenze dell’unione la predisposizione, l’adozione e l’attuazione del PTPC e delle misure organizzative in esso contenute, relativamente alle funzioni trasferite all’unione. Ciò in coerenza con il principio secondo cui spetta all’ente che svolge direttamente le funzioni la mappatura dei processi, l’individuazione delle aree di rischio e la programmazione delle misure di prevenzione a esse riferite. Con riferimento alle altre funzioni, che restano in capo ai singoli comuni in quanto non svolte in forma associata: – qualora lo statuto dell’unione preveda l’associazione della funzione di prevenzione della corruzione, da sola o a seguito dell’associazione della funzione fondamentale di «organizzazione generale dell’amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo», a seguito di un idoneo coordinamento, l’unico PTPC dell’unione può contenere anche le misure relative alle funzioni non associate, svolte autonomamente dai singoli comuni. Qualora si opti per questa modalità operativa semplificata, resta ferma la responsabilità diretta per l’attuazione delle misure di prevenzione in capo ai singoli comuni e, in particolare, ai soggetti incaricati dell’attuazione; – in alternativa, ciascun ente può continuare a predisporre il proprio PTPC, mutuando o rinviando al PTPC dell’unione per quelle parti del PTPC comuni all’unione, con particolare riferimento all’analisi del contesto esterno. 3.1.2 Responsabile della prevenzione della corruzione La legge 7 aprile 2014, n. 56 «Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni», all’art. 1, co. 110, prevede che alcune attività possano essere svolte dalle unioni di comuni in forma associata anche per i comuni che le costituiscono, con particolare riferimento alle funzioni di responsabile anticorruzione, svolte da un funzionario nominato dal presidente dell’unione tra i funzionari dell’unione e dei comuni che la compongono. Nella stessa direzione si muove la l. 190/2012, art. 1, co. 7, come sostituito dal d.lgs. 97/2016, che prevede che nelle unioni di comuni può essere nominato un unico responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza. Le funzioni di RPCT dell’unione sono pertanto attribuite dal Presidente della Giunta al segretario comunale dell’unione o di uno dei comuni aderenti o a un dirigente apicale, salvo espresse e motivate eccezioni, in coerenza con quanto previsto all’art.1, co. 7, della l. 190/2012, come modificato dal d.lgs. 97/2016. In alternativa, laddove ricorrano valide ragioni, da indicare analiticamente nel provvedimento di nomina, l’incarico può essere assegnato ad altro funzionario dell’unione o dei comuni aderenti, identificato con figure dirigenziali, o titolari di posizione organizzativa. In ogni caso non può trattarsi di un soggetto esterno all’amministrazione, cioè esterno a uno dei comuni facenti parte dell’unione (15). – Qualora i comuni abbiano associato anche la funzione di prevenzione della corruzione, attribuendo all’unione la competenza a redigere un unico PTPC anche per le funzioni non trasferite, il RPCT dell’unione svolge le proprie funzioni anche per i comuni associati. In questo caso, tuttavia, data la difficoltà di assicurare un capillare controllo anche all’interno di questi ultimi, per le funzioni non trasferite all’unione occorre che ciascun comune nomini al proprio interno un referente chiamato a verificare, dandone conto al RPCT, l’effettiva attuazione delle misure nel proprio ente, a proporre l’adozione di possibili ulteriori o diverse misure, ad assicurare un costante flusso informativo nei confronti del RPCT. Come già precisato (Aggiornamento 2015 al PNA, parte generale, § 4.2) i referenti svolgono attività informativa nei confronti del RPCT affinchè questi abbia elementi e riscontri sia per la formazione e il monitoraggio del PTPC sia sull’attuazione delle misure. In questa prospettiva, al fine di rafforzare le possibilità di intervento del RPCT e garantire autonomia ed effettività dell’incarico mediante espressa previsione statutaria, è necessario attribuire al RPCT dell’unione: – responsabilità di proporre e sovrintendere all’attuazione del PTPC unico; – poteri di coordinamento anche all’interno dei comuni, avvalendosi dei referenti nominati e dei soggetti che svolgono funzioni dirigenziali. I poteri di coordinamento è necessario contemplino, tra l’altro, la possibilità di organizzare al meglio i flussi informativi tra gli uffici degli enti aderenti, referenti e RPCT; – poteri di vigilanza sull’attuazione delle misure di prevenzione. I poteri di vigilanza comprendono, tra l’altro, la possibilità di approntare sistemi di verifica e controllo dell’efficace attuazione delle misure con la necessaria collaborazione dei soggetti che svolgono funzioni dirigenziali e in generale dei dipendenti dei comuni aderenti all’unione; – adeguati poteri di interlocuzione con i referenti, con gli altri funzionari e con gli organi di controllo dei comuni coinvolti e conseguente previsione di doveri professionali dei dirigenti e dei referenti di rispondere al RPCT. In questa ottica è opportuno sottolineare il ruolo di coordinamento generale del RPCT a fronte di precise responsabilità di attuazione delle misure che spettano ai soggetti che, in ciascun comune, svolgono ruoli di responsabilità tecnico amministrativa (dirigenti, titolari di posizione organizzativa, funzionari). – Qualora gli enti facenti parte dell’unione non abbiano associato anche la funzione di prevenzione della corruzione e continuino a redigere autonomi PTPC per le funzioni non trasferite, ciascuno di essi è tenuto a nominare il proprio RPCT. Questi svolge la funzione di referente del RPCT dell’unione per le funzioni ad essa attribuite garantendo, in particolare, la regolare corrispondenza dei flussi informativi. Sia che i comuni abbiano deciso di avvalersi della facoltà di redigere un solo PTPC, associando la funzione di prevenzione della corruzione (da sola o tramite l’associazione dell’«organizzazione generale dell’amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo») sia che adottino Piani separati per le funzioni non trasferite, può essere, comunque, opportuno attribuire al RPCT dell’unione un ruolo di coordinamento nei riguardi di tutti gli enti e soggetti coinvolti nell’azione di prevenzione della corruzione che può riguardare, in particolare: – la formazione del personale di tutti i comuni dell’unione; – l’analisi del contesto esterno per la predisposizione dei PTPC. Essa potrà svilupparsi in modo unitario considerando come riferimento l’intero territorio dell’unione ed essere svolta anche con il supporto tecnico e informativo della Prefettura competente, oltre che della provincia, in quanto ente territoriale di area vasta che esercita funzioni di assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali, ai sensi dell’art.1, commi 85, lett. d), e 88, l. 56/2014. Nel caso di comuni ricadenti in città metropolitane, tali enti potranno fornire il necessario ausilio con riguardo alla costituzione di “zone omogenee” previste dalla l. 56/2014, art. 1, co. 11, lett. c). In merito si rinvia all’approfondimento II sulle città metropolitane, § 2.3. 3.2 Convenzioni di Comuni La convenzione ai sensi dell’art. 30 del TUEL – l’altra modalità operativa indicata dalla disciplina sulle gestione aggregate obbligatorie – è attualmente la forma associativa più diffusa tra i comuni, trattandosi di quella certamente più flessibile, anche se l’ordinamento sembra manifestare un minor favore verso questo modello rispetto a quello dell’unione. Anche per le convenzioni sono di seguito individuati alcuni possibili adattamenti della disciplina in tema di prevenzione della corruzione, con particolare riferimento al PTPC e al ruolo del RPCT. 3.2.1 Piano triennale di prevenzione della corruzione Per i PTPC dei comuni che abbiano stipulato una convenzione ai sensi dell’art. 30 del TUEL occorre distinguere le funzioni associate dalle funzioni che i comuni convenzionati continuano a svolgere autonomamente. Con riferimento alle funzioni associate, è il comune capofila (o l’ufficio appositamente istituito) a dover elaborare la parte di Piano concernente tali funzioni, programmando, nel proprio PTPC, le misure di prevenzione, le modalità di attuazione, i tempi e i soggetti responsabili. Per assicurare il necessario coordinamento con gli altri comuni, occorre che questi ultimi, all’interno dei propri PTPC, recepiscano la mappatura dei processi relativi a dette funzioni. Con riferimento alle funzioni non associate, ciascun comune che aderisce alla convenzione deve redigere il proprio PTPC. A differenza di quanto previsto per le unioni, non si ritiene ammissibile per le convenzioni la possibilità di redigere un solo PTPC, anche quando i comuni abbiano associato la funzione di prevenzione della corruzione o quando alla convenzione sia demandata la funzione fondamentale di «organizzazione generale dell’amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo». A differenza dell’unione, infatti, la convenzione non dà vita a un nuovo ente locale, dotato di una propria organizzazione e di propri organi e rappresenta una forma meno stabile di cooperazione. In ogni caso, sia per le funzioni associate sia per tutte le altre è opportuno assicurare un necessario coordinamento delle attività legate alla gestione del rischio di corruzione. Il coordinamento fra i comuni convenzionati – come per le unioni – può riguardare: – iniziative per la formazione in materia di anticorruzione; – elaborazione di documenti condivisi per la predisposizione dei rispettivi PTPC, in particolare per l’analisi del contesto esterno e per le misure di prevenzione relative alle funzioni aggregate. La previsione di queste forme di coordinamento nonchè l’attribuzione al RPCT del comune capofila dei necessari poteri di organizzazione e gestione delle conseguenti iniziative e dei flussi informativi sono disciplinate nelle convenzioni con le quali si delibera l’associazione delle funzioni. Ulteriore ipotesi configurabile per i comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti è quella della stipula di una convenzione ex art. 30 del TUEL o di un accordo ai sensi dell’art. 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (art. 1, co. 6, l. 190/2012, come modificato dal d.lgs. 97/2016), unicamente allo scopo di definire in comune i PTPC di ogni singolo ente. Il coordinamento nella definizione in comune del PTPC consente di semplificare l’attività dei singoli comuni coinvolti, attraverso la condivisione delle attività di formazione, dell’analisi del contesto esterno, del processo di individuazione delle aree di rischio e dei criteri di valutazione delle stesse. Resta fermo che ciascun comune che aderisce alla convenzione o all’accordo, sulla base dei documenti e delle attività condivise, adotta il proprio PTPC e nomina il proprio RPCT. 3.2.2. Responsabile della prevenzione della corruzione In virtù delle considerazioni sopra espresse, i comuni aderenti alla convenzione nominano ciascuno un proprio RPCT anche qualora, tramite la convenzione, decidano di aggregare la funzione di prevenzione della corruzione, o quella di «organizzazione generale dell’amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo». I compiti di coordinamento possono essere svolti nelle forme ritenute più adeguate, in base all’assetto prescelto per la gestione associata delle funzioni prevedendo, mediante espressa disciplina della convenzione: – ove sia stato indicato un comune capofila, che il RPCT di questo ente possa espletare le funzioni di coordinamento; – ove la convenzione preveda l’istituzione di un ufficio comune per l’esercizio delle funzioni aggregate, che uno dei RPCT – scelto tra quelli dei comuni convenzionati – svolga le descritte funzioni di coordinamento. Il coordinamento delle attività finalizzate alla predisposizione dei PTPC nell’ambito della convenzione può essere esteso anche alle funzioni che restano di competenza dei singoli comuni; ciò, al fine di garantire anche per queste parti dei rispettivi Piani l’applicazione di criteri omogenei per la mappatura dei procedimenti, l’individuazione delle aree di rischio e delle misure di prevenzione. Resta ferma sia la responsabilità diretta dei RPCT di ogni comune in ordine alla predisposizione del PTPC dell’ente locale, sia quella dei dirigenti per l’attuazione delle misure di prevenzione previste. 4. Altre semplificazioni per i piccoli comuni L’ANAC si riserva di elaborare indicazioni volte ad agevolare il processo di gestione del rischio di corruzione nei piccoli comuni in cui la scarsità di risorse non consente di implementare, in tempi brevi, un adeguato processo valutativo. In ogni caso, per i dati relativi al contesto esterno e una prima analisi degli stessi, i piccoli comuni possono avvalersi del supporto tecnico e informativo delle Prefetture. Resta ferma la responsabilità di ogni ente di contestualizzare l’analisi anche rispetto a dati in proprio possesso. Come anche indicato nell’approfondimento II dedicato alle città metropolitane, cui si rinvia, le “zone omogenee” delle città metropolitane possono rappresentare un utile riferimento per i comuni del territorio ai fini dell’analisi del contesto esterno e della predisposizione del PTPC. Analogamente, le province possono fornire un supporto agli enti locali che ricadono nel relativo ambito territoriale, come precisato al § 3.1. Una specifica misura di semplificazione è stata introdotta dall’art. 6, co. 6, del decreto del Ministero dell’Interno del 25 settembre 2015 «Determinazione degli indicatori di anomalia al fine di agevolare l’individuazione delle operazioni sospette di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo da parte degli uffici della pubblica amministrazione» secondo cui gli enti locali con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti possono individuare un unico soggetto quale “gestore comune” delle segnalazioni di operazioni sospette. Nel rinviare alla parte generale § 5.2, si ricorda che gli enti possono decidere di attribuire tale incarico al RPCT che, in questo caso, può coincidere con il RPCT dell’unione di comuni o, comunque, in un RPCT dei comuni che abbiano deciso di stipulare una convenzione o un accordo ai sensi dell’art. 15 della l. 241/1990. Particolari modalità semplificate per l’attuazione degli obblighi di trasparenza da parte dei comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti, previste nell’art. 3, co. 1-ter, del d.lgs. 33/2013, introdotto dal d.lgs. 97/2016, saranno oggetto di specifiche Linee guida dell’Autorità. Ai fini della semplificazione si rammenta, comunque, la possibilità di assolvere l’obbligo di pubblicazione anche mediante un link ad altro sito istituzionale ove i dati e le informazioni siano già pubblicati. 5. Coordinamento fra gli strumenti di programmazione La legge 190/2012, prevede che «l’organo di indirizzo definisce gli obiettivi strategici in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza, che costituiscono contenuto necessario dei documenti di programmazione strategico-gestionale e del Piano triennale per la prevenzione della corruzione» (art. 1, co. 8, come sostituito dal d.lgs. 97/2016). Si ribadisce, pertanto, come anche già evidenziato nel § 5.1 della parte generale, la necessità che il PTPC contenga gli obiettivi strategici in materia di prevenzione e di trasparenza fissati dagli organi di indirizzo. Tali obiettivi devono altresi’ essere coordinati con quelli previsti in altri documenti di programmazione strategico-gestionale adottati dai comuni ivi inclusi, quindi, piano della performance e documento unico di programmazione (di seguito DUP). Quest’ultimo, nuovo documento contabile introdotto dal d.lgs. 23 giugno 2011 n. 118, «Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 5 maggio 2009, n. 42» (successivamente integrato con il d.lgs. 10 agosto 2014, n. 126), è stato adottato dalla generalità degli enti locali a partire dal 2015. Si propone che tra gli obiettivi strategici e operativi di tale strumento, una volta entrato a regime, vengano inseriti quelli relativi alle misure di prevenzione della corruzione previsti nel PTPC al fine di migliorare la coerenza programmatica e l’efficacia operativa degli strumenti. In prospettiva, più che un coordinamento ex post tra i documenti esistenti, che comunque costituisce un obiettivo minimale, maggiore efficacia potrà ottenersi dall’integrazione ex ante degli strumenti di programmazione. Nel contesto di un percorso di allineamento temporale tra i due documenti – DUP e PTPC- che richiede un arco temporale maggiore, come prima indicazione operativa in sede di PNA 2016 si propone, dunque, di inserire nel DUP quantomeno gli indirizzi strategici sulla prevenzione della corruzione e sulla promozione della trasparenza ed i relativi indicatori di performance. II – CITTÀ METROPOLITANE Premessa La finalità del presente approfondimento è quella di fornire, anche sulla base delle esperienze concrete, indicazioni operative alle città metropolitane per la predisposizione e gestione delle misure di prevenzione della corruzione, definendo altresi’ competenze e responsabilità nell’adozione dei PTPC. 1. Valutazione dei PTPC delle città metropolitane L’esame condotto dall’ANAC sui PTPC delle città metropolitane ha evidenziato, nel complesso, un allineamento con gli esiti della valutazione dei PTPC 2016 a livello nazionale come descritti nel §2 della parte generale del presente PNA alla quale si rinvia. Si evidenzia, tuttavia, quale specifico elemento positivo riscontrato nei PTPC delle città metropolitane una buona articolazione delle aree di rischio e delle misure di carattere generale cui non corrisponde, però, un’adeguata mappatura dei processi. Quali principali criticità si evidenziano, invece, l’assenza di partecipazione degli organi di indirizzo politico-amministrativo ai processi di adozione dei PTPC e uno scarso coinvolgimento degli stakeholders. Si è altresi’ rilevato che è stata dedicata grande attenzione alla ricognizione delle fonti normative e del processo di subentro delle città metropolitane alle province, in ragione del contesto plurilaterale nel quale tali enti vengono ad inserirsi, quali organismi intermedi tra la regione e i comuni. Ciò impone di considerare sia la complessità nel riparto delle funzioni, dovuta alla concorrenza tra previsioni statali e regionali, sia l’articolazione delle strutture, tenuto conto della possibile presenza di convenzioni tramite le quali, ai sensi della l. 56/2014, i comuni e le loro unioni possono avvalersi di strutture della città metropolitana per l’esercizio di specifiche attività oppure delegare il predetto esercizio a strutture della città metropolitana e viceversa. Nel presente PNA sono formulate, pertanto, alcune linee di indirizzo con particolare riferimento a: – relazione tra città metropolitane e altri enti territoriali (regione, comune capoluogo, comuni del territorio metropolitano) al fine di individuare le aree e i processi da valutare per la gestione del rischio; – individuazione dell’organo cui compete l’adozione del PTPC; – individuazione del RPCT della città metropolitana; – contenuti principali del PTPC; – obblighi di trasparenza. 2. Rapporto città metropolitane ed enti territoriali (regione, comune capoluogo, comuni del territorio) 2.1 Rapporto tra città metropolitana e regione per identificare le funzioni e i relativi processi da mappare nei PTPC Come è noto, ai sensi della l. 56/2014 ed alla luce dell’accordo tra governo e regioni dell’11 settembre 2014, le regioni possono attribuire funzioni alle città metropolitane, mediante leggi di riordino delle funzioni delegate o trasferite. Tuttavia, allo stato attuale, mentre sono state approvate le leggi regionali, non risultano complessivamente adottati i conseguenti accordi attuativi volti a disciplinare l’effettiva decorrenza del trasferimento delle funzioni, le modalità operative, l’entità dei beni, delle risorse umane, finanziarie, strumentali ed organizzative destinate dalla città metropolitana all’esercizio di ogni singola funzione. Il d.P.C.M. 26 settembre 2014, «Criteri per l’individuazione dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative connesse con l’esercizio delle funzioni provinciali», prevede che le amministrazioni interessate (provincia ed ente subentrante) concordino il trasferimento dei beni e delle risorse connesse alle funzioni. Il rapporto tra città metropolitana e regione di riferimento è stato, pertanto, indagato al fine di enucleare il criterio che possa consentire di individuare, a prescindere dall’incompletezza dei percorsi formali di attribuzioni di deleghe e funzioni, quali siano le funzioni che la città metropolitana deve considerare ai fini della mappatura delle aree a rischio e della predisposizione delle misure di prevenzione della corruzione. In primo luogo va ribadito che i PTPC delle città metropolitane contengono necessariamente misure di prevenzione della corruzione con riguardo alle funzioni fondamentali specificamente individuate dall’art.1, commi da 44 a 46, della l. 56/2014. Inoltre, ove l’ente territoriale città metropolitana si ponga in qualità di ente che succede o subentra ad altro ente territoriale (es. province), le misure di prevenzione dovranno riguardare anche le funzioni acquisite a seguito del subentro o trasferimento dei compiti, secondo il criterio indicato con Comunicato del Presidente dell’Autorità del 16 dicembre 2015 (16). Il medesimo criterio può essere richiamato per le funzioni delegate dalle regioni o dalle stesse, viceversa, acquisite a seguito di specifica normativa regionale. Pertanto, le predette funzioni devono ritenersi oggetto della programmazione delle misure di prevenzione della corruzione da parte del soggetto/amministrazione che direttamente le esercita in virtù di delega e/o attribuzione. Per esercizio della funzione deve intendersi l’espletamento della medesima, con conseguente gestione delle relative risorse umane e finanziarie. L’indicazione del presente PNA è dunque nel senso che, per individuare l’ente territoriale (città metropolitana o regione) cui spetta considerare la funzione e i relativi processi ai fini della predisposizione del PTPC, il criterio da utilizzare è quello dell’esercizio effettivo della funzione anche in virtù di delega e/o attribuzione, criterio che prevale su quello della mera titolarità della medesima. Per quanto riguarda la data certa di decorrenza del criterio indicato, si considerano esercitate tutte le funzioni svolte in virtù di delega e/o attribuzione alla data del 31 dicembre di ogni anno relativo al triennio considerato nel PTPC, ancorchè le medesime siano esercitate per frazione di anno, ossia solo per una parte dell’anno o degli anni considerati nel PTPC, e fermo restando che ove la città metropolitana preveda di cessare l’esercizio della funzione nel corso dell’anno deve farne menzione nel PTPC, indicando la procedura di trasferimento e l’ente subentrante che, ai fini del proprio PTPC considererà la funzione nell’anno successivo. La presenza di tale indicazione nel PTPC è necessaria per circoscrivere e ricondurre il sistema della responsabilità all’effettivo periodo di esercizio della funzione. Gli enti subentranti (siano essi la regione o viceversa la città metropolitana) devono individuare nei propri PTPC le misure di prevenzione della corruzione relative a dette funzioni dal momento dell’effettivo trasferimento dell’esercizio della funzione. Ciò allo scopo di evitare adempimenti meramente temporanei e agevolare la riorganizzazione in corso. Nel caso in cui i processi di trasferimento e riallocazione delle funzioni, attualmente in atto, determinassero situazioni, transitorie ma rilevanti, di “esercizio contiguo” delle funzioni gestite dalla città metropolitana e di quelle gestite dalla regione – che si verifica quando il personale, rispettivamente incardinato nei diversi enti, lavora a stretto contatto e/o anche nelle stesse strutture – deve essere dedicata particolare attenzione alle possibili conseguenze dell’interferenza e dei contatti del personale che opera nei diversi uffici, individuando nei PTPC adeguate condizioni organizzative e misure per evitare fenomeni di maladministration. Con riferimento, inoltre, all’aspetto della gestione del personale che, per effetto di distacchi o comandi, dovesse transitare da un ente all’altro, dovrà essere data adeguata evidenza nel PTPC di tali passaggi e dei criteri adottati, fermo restando che la mappatura della funzione, cui il personale viene addetto, segue il criterio sopra indicato. 2.2 Rapporto tra città metropolitana e comune capoluogo al fine di favorire forme di coordinamento per la predisposizione dei rispettivi PTPC Comune capoluogo e città metropolitana si trovano a svolgere funzioni che richiedono un elevato livello di condivisione reciproca che può dare luogo ad accordi tra le due amministrazioni volti al mero coordinamento nello svolgimento delle rispettive funzioni oppure alla costituzione di uffici comuni al fine di garantire un esercizio congiunto. Queste soluzioni organizzative possono esser favorite dall’ampiezza del potere statutario lasciato alle città metropolitane, come risulta dalle disposizioni di cui ai commi 10 e 11 dell’art. 1 della l. 56/2014. In ordine a quanto sopra evidenziato si forniscono indicazioni volte a favorire la predisposizione coordinata di alcune parti dei PTPC di città metropolitana e comune capoluogo. In primo luogo possono esser valorizzati gli accordi di cui all’art. 15 della l. 241/1990 o le convenzioni tra enti locali di cui all’art. 30 del TUEL, con i quali comune capoluogo e città metropolitana stabiliscono congiuntamente modalità operative per l’esercizio delle attività comuni. Tali accordi/convenzioni, infatti, possono essere utilizzati per definire insieme mappature di processi condivisi, misure preventive della corruzione nonchè modalità di ripartizione delle responsabilità di attuazione. In ogni caso deve essere data evidenza, nei rispettivi PTPC, della presenza di tali accordi o convenzioni e del loro specifico contenuto in materia di anticorruzione. Le modalità di collaborazione tra citta metropolitana e comune capoluogo potranno essere diverse, comprendendo diversi livelli organizzativi e riguardando decisioni ed attività differenti, in ragione delle diversità territoriali e delle forme di collaborazione prescelte. Pertanto, di volta in volta, le amministrazioni interessate dovranno verificare l’adeguatezza e l’efficacia del modello organizzativo adottato rispetto all’individuazione di attività specifiche legate all’anticorruzione. In ordine ai contenuti di tali accordi/convenzioni ai fini della predisposizione dei PTPC, è opportuno che i medesimi abbiano ad oggetto, quantomeno, l’analisi del contesto esterno vista la condivisione del medesimo contesto territoriale nonchè alcuni aspetti dell’analisi di contesto interno, della mappatura dei processi ed altri aspetti, quali la eventuale condivisione di strutture, personale ed uffici. 2.3 Rapporto tra città metropolitana e piccoli comuni del territorio, per coordinare e semplificare l’attività di elaborazione dei rispettivi PTPC L’analisi degli statuti di alcune città metropolitane ha evidenziato la previsione di forme di assistenza tecnico amministrativa in generale e in materia di prevenzione della corruzione e promozione della trasparenza in particolare, nei confronti di comuni ed unioni di comuni del territorio. Con riferimento al predetto livello di interazione, e premesso il ruolo di coordinamento degli strumenti di programmazione e pianificazione che la l. 56/2014 attribuisce alle città metropolitane, il PTPC della città metropolitana potrebbe contenere, sulla base di specifiche modalità organizzative e di coinvolgimento dei RPCT del territorio, elementi di impulso e di indirizzo per i PTPC dei comuni e/o unioni di comuni ricadenti nel territorio di riferimento. Nel fare ciò, è auspicabile che i PTPC delle città metropolitane forniscano indicazioni adeguate – e dunque se del caso opportunamente differenziate – in relazione ad aree omogenee nelle quali può essere articolato il territorio di riferimento, sulla base degli elementi desunti dalla condivisione metodologica con i RPCT del territorio stesso. A titolo esemplificativo si fa riferimento alla possibilità che la città metropolitana valorizzi la cooperazione funzionale, promuovendo la costituzione di “zone omogenee”, cioè di realtà territoriali integrate e gruppi di comuni con caratteristiche omogenee, con i quali strutturare modalità di confronto, ai fini dell’emersione di esigenze specifiche da considerare nella redazione del PTPC. In questo modo la città metropolitana può, da un lato, promuovere la redazione congiunta di parti di PTPC dei comuni, ivi compresa la configurazione di misure organizzative di prevenzione della corruzione analoghe, fermo restando che ogni misura è poi effettivamente adottata da ciascun comune, in rapporto alla propria realtà organizzativa. Dall’altro lato, la città metropolitana può fornire supporto ai comuni che per ridotte dimensioni o altri motivi, eventualmente anche legati a profili di inefficienza allo stato non superati, non dovessero associarsi per la redazione del PTPC. In un contesto cosi’ organizzato, l’apporto collaborativo delle città metropolitane nei confronti dei comuni del territorio, specie di quelli di ridotte dimensioni, può tradursi nell’istituzione di un tavolo di confronto e/o una consulta tra i RPCT dei comuni, i responsabili delle aree omogenee e il RPCT della città metropolitana, ovvero loro appositi referenti con il compito di individuare buone pratiche e programmare attività, come, ad esempio: – analisi congiunta del contesto esterno, anche in raccordo con le Prefetture, al fine di individuare gli elementi di criticità e di omogeneizzare l’analisi e i fattori critici del contesto; – individuazione delle aree comuni di rischio proprie delle singole amministrazioni, anche per “zone omogenee”, sulla base dell’analisi del contesto interno dei singoli PTPC adottati dagli enti, al fine di proporre più efficaci misure di prevenzione (risk assessment); – individuazione e proposta di buone pratiche, non in termini generali, ma di carattere specifico all’esito di un confronto concreto tra le diverse realtà territoriali e la condivisione delle analisi. Altri interventi possono realizzarsi mediante la gestione congiunta a livello territoriale di alcune misure di carattere generale, quali, ad esempio, la formazione prevista obbligatoriamente in materia di trasparenza e anticorruzione, suddivisa, ad esempio, nei diversi profili (tecnico, amministrativo, operativo, ecc.), anche al fine di valorizzare economie di scala e di garantire un livello di qualità adeguato alla formazione, con risorse finanziarie in proporzione a carico dei rispettivi enti. Quanto sopra, fermo restando il permanere della responsabilità, ai sensi della l. 190/2012, in capo a ciascun ente e, al proprio interno, in capo ai diversi soggetti che intervengono nella fase di predisposizione, adozione, attuazione e monitoraggio dei PTPC. 3. Individuazione dell’organo di indirizzo che adotta il PTPC L’art. 1, co. 8 della l. 190/2012, come sostituito dall’art. 41, co. 1, lett. g), del d.lgs. 97/2016, prevede che negli enti locali il PTPC sia adottato dalla Giunta, quindi da un organo esecutivo. Attesa l’assenza di Giunta nelle città metropolitane, si ritiene che l’adozione del PTPC debba, di norma, prevedere un doppio passaggio: l’approvazione da parte del consiglio metropolitano di un documento di carattere generale sul contenuto del PTPC, mentre l’organo esecutivo, rappresentato dal Sindaco metropolitano, resta competente all’adozione finale, salvo diversa previsione statutaria. Al momento questa indicazione è confermata dall’analisi dei PTPC delle città metropolitane dalla quale è emerso che nella maggioranza dei casi il Sindaco metropolitano adotta il PTPC. Ne consegue che la responsabilità in caso di “omessa adozione” si configura in capo all’organo competente all’adozione finale, individuato di norma, salvo diversa disposizione statutaria, nel Sindaco metropolitano. Resta fermo che per omessa adozione si intende tutto quanto evidenziato dall’Autorità nell’art. 1, lett. g) del «Regolamento in materia di esercizio del potere sanzionatorio dell’Autorità Nazionale Anticorruzione per l’omessa adozione dei Piani triennali di prevenzione della corruzione, dei Programmi triennali di trasparenza, dei Codici di comportamento» del 9 settembre 2014. Quanto previsto sull’organo competente ad adottare il PTPC è da intendersi riferito anche all’adozione dei codici di comportamento. 4. Nomina del RPCT Fermo restando quanto previsto al § 5.2. della parte generale sui requisiti del RPCT, si ritiene che la sua nomina sia di competenza dello stesso organo di indirizzo che adotta il PTPC, di norma, il Sindaco metropolitano. 5. Obblighi di trasparenza A fini di semplificazione, le città metropolitane possono inserire sul proprio sito istituzionale, nella sezione Amministrazione trasparente, link di rinvio a quei dati già pubblicati da parte di enti territoriali di dimensione inferiore. Questa circostanza si può verificare quando vi è totale coincidenza, a norma di legge, fra i dati da pubblicare da parte della città metropolitana e quelli da parte di altro ente del territorio e sempre che il RPCT della città metropolitana abbia verificato la correttezza, la completezza e l’aggiornamento del dato al quale si rinvia. 6. Coordinamento fra gli strumenti di programmazione L’art. 1, co. 8 della l. 190/2012, come sostituito dal d.lgs. 97/2016, prevede che «l’organo di indirizzo definisce gli obiettivi strategici in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza, che costituiscono contenuto necessario dei documenti di programmazione strategico-gestionale e del Piano triennale per la prevenzione della corruzione». Si ribadisce pertanto, come già esposto nella parte generale al §5.1. cui si rinvia, la necessità che il PTPC contenga gli obiettivi strategici in materia di prevenzione e di trasparenza fissati dagli organi di indirizzo. Tali obiettivi devono altresi’ essere coordinati con quelli previsti in altri documenti di programmazione strategico-gestionale della città metropolitana ivi inclusi, quindi, piano della performance e DUP. In questa ottica si raccomanda che tra gli obiettivi strategici ed operativi del DUP vengano inseriti quelli strategici relativi alle misure di prevenzione della corruzione previsti nel PTPC al fine migliorare la coerenza programmatica e l’efficacia operativa degli strumenti. In prospettiva, più che un coordinamento ex post tra i documenti esistenti, che comunque costituisce un obiettivo minimale, maggiore efficacia potrà ottenersi dall’integrazione ex ante degli strumenti di programmazione. Nel contesto di un percorso di allineamento temporale tra i due documenti – DUP e PTPC- che richiede un arco temporale maggiore, come prima indicazione operativa in sede di PNA 2016 si propone, dunque, di inserire nel DUP quantomeno gli indirizzi strategici sulla prevenzione della corruzione e sulla promozione della trasparenza ed i relativi indicatori di performance. III – ORDINI E COLLEGI PROFESSIONALI Premessa Gli ordini e i collegi professionali sono tenuti a osservare la disciplina in materia di trasparenza e di prevenzione della corruzione nonchè gli orientamenti del presente PNA, secondo quanto previsto dal d.lgs. 97/2016 ed, in particolare, dagli artt. 3, 4 e 41 che hanno modificato, rispettivamente gli artt. 2 e 3 del d.lgs. 33/2013 e, tra l’altro, l’art. 1 c. 2 della l. 190/2012. Con particolare riguardo alla trasparenza, l’art. 2-bis del d.lgs. 33/2013 al comma 2 precisa che la medesima disciplina prevista per le pubbliche amministrazioni si applica anche agli ordini professionali, in quanto compatibile. Premessi i limiti di compatibilità indicati, non sussistono pertanto più dubbi che gli ordini professionali rientrino nel novero dei soggetti tenuti a conformarsi al d.lgs. 33/2013. A tale riguardo, peraltro, all’Autorità è stato attribuito il potere di precisare, in sede di PNA gli obblighi di pubblicazione e le relative modalità di attuazione in relazione alla natura dei soggetti, alla loro dimensione organizzativa e alle attività svolte, prevedendo in particolare modalità semplificate anche per gli organi e collegi professionali (co.1-ter, inserito all’art. 3, d.lgs. 33/13). Analogamente, agli ordini e ai collegi professionali si applica la disciplina prevista dalle l. 190/2012 sulle misure di prevenzione della corruzione. In virtù delle modifiche alla l. 190/2012, si evince che il PNA costituisce atto di indirizzo per i soggetti di cui all’art. 2 bis del d.lgs. 33/13, ai fini dell’adozione dei PTPC o delle misure di prevenzione della corruzione integrative di quelle adottate ai sensi del d.lgs 8 giugno 2001, n. 231 (co. 2-bis, inserito all’art. 1 della l. 190/2012). Alla luce di quanto premesso, al fine di orientare l’attività degli ordini e dei collegi professionali di livello centrale e territoriale, di seguito sono approfondite le seguenti questioni relative a profili di tipo organizzativo e di gestione del rischio: > RPCT e adozione del PTPC e delle misure di prevenzione della corruzione; > aree di rischio specifiche che caratterizzano gli ordini e collegi professionali; > trasparenza di cui al d.lgs. 33/2013. 1. Responsabile della prevenzione della corruzione e adozione del PTPC e di misure di prevenzione della corruzione 1.1 Responsabile della Prevenzione della corruzione e della trasparenza La legislazione anticorruzione ha attribuito particolare rilevanza al ruolo del RPCT. Per quanto attiene alla specifica realtà degli ordini e collegi professionali, si ritiene che il RPCT debba essere individuato all’interno di ciascun Consiglio nazionale, ordine e collegio professionale (sia a livello centrale che a livello locale). Più in particolare, l’organo di indirizzo politico individua il RPCT, di norma, tra i dirigenti amministrativi in servizio. Occorre sottolineare, al riguardo, che Ordini e Collegi non necessariamente dispongono di personale con profilo dirigenziale. In tali casi, si pone pertanto, il problema dell’individuazione del soggetto al quale affidare il ruolo di RPCT. Rinviando al § 5.2. della parte generale per le questioni di inquadramento complessivo, si evidenzia che nelle sole ipotesi in cui gli ordini e i collegi professionali siano privi di dirigenti, o questi siano in numero cosi’ limitato da dover essere assegnati esclusivamente allo svolgimento di compiti gestionali nelle aree a rischio corruttivo, circostanze che potrebbero verificarsi in strutture organizzative di ridotte dimensioni, il RPCT potrà essere individuato in un profilo non dirigenziale che garantisca comunque le idonee competenze. Solo in via residuale e con atto motivato, il RPCT potrà coincidere con un consigliere eletto dell’ente, purchè privo di deleghe gestionali. In tal senso, dovranno essere escluse le figure di Presidente, Consigliere segretario o Consigliere tesoriere. In questi casi, è auspicabile, al fine di prevedere forme di responsabilità collegate al ruolo di RPCT, che i Consigli nazionali, gli ordini e collegi territoriali – nell’impossibilità di applicare le responsabilità previste dalla l. 190/2012 ai consiglieri – definiscano e declinino forme di responsabilità almeno disciplinari, ai fini delle conseguenze di cui alla predetta legge, con apposite integrazioni ai propri codici deontologici. 1.2 Predisposizione del PTPC e delle misure di prevenzione della corruzione L’art. 41 del d.lgs. 97/2016, nell’introdurre l’art. 1, co. 2-bis, della l. 190/2012, sembrerebbe ricondurre gli ordini e i collegi professionali fra quei soggetti cui spetta l’adozione di misure di prevenzione della corruzione integrative di quelle adottate ai sensi del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 (art. 1, co. 2-bis l. 190/2012). Tuttavia, tenuto conto dell’ambito soggettivo di applicazione del d.lgs. 231/2001 e considerato che non necessariamente il modello ivi previsto è applicabile da parte degli ordini e dei collegi professionali, di norma gli stessi adottano un PTPC. In via residuale, qualora gli enti decidano di adottare o abbiano già adottato un modello ai sensi del d.lgs. 231/2001, è necessario che le misure idonee a prevenire anche i fenomeni di corruzione e di illegalità all’interno dell’ente in coerenza con le finalità della l. 190/2012 siano ricondotte all’interno di un documento unitario che tiene luogo del Piano di prevenzione della corruzione anche ai fini della valutazione dell’aggiornamento annuale e della vigilanza dell’A.N.AC.. Separate considerazioni vanno svolte, laddove ordini e collegi professionali siano di dimensioni limitate e non siano dotati di pianta organica sufficiente ad implementare la normativa anticorruzione in maniera sostenibile per insufficienza di struttura organizzativa o limitato numeri di iscritti. Al riguardo, deve ragionevolmente riconoscersi la possibilità per gli ordini e collegi “di piccole dimensioni” di stipulare accordi ai sensi dell’art. 15 della l. 241/90, purchè essi risultino comunque appartenenti ad aree territorialmente limitrofe e siano appartenenti alla medesima categoria professionale o a categorie professionali omogenee. Questa indicazione è, peraltro, coerente con quanto previsto nel d.lgs. 97/2016 in cui si esprime favore per l’aggregazione di enti di piccole dimensioni al fine della predisposizione del PTPC. La definizione di accordi tra ordini e collegi professionali, che consente di procedere alla redazione in comune di alcune parti del documento, non esime i singoli enti dalla nomina di un proprio RPCT e dall’adozione del PTPC o, comunque, di misure di prevenzione della corruzione. Ad esempio, potranno essere redatte in comune dagli ordini o collegi le parti del PTPC relative alla descrizione del contesto esterno di riferimento e, per i processi dello stesso tipo, anche del contesto interno. In quest’ultimo caso, le mappature dei processi a rischio di corruzione possono avere lo stesso contenuto nei singoli PTPC, ad eccezione della individuazione delle misure di prevenzione (ivi inclusi i responsabili, i tempi e le modalità di attuazione), che dovranno necessariamente essere adeguate alle peculiarità specifiche di ciascun ente. È auspicabile che ciascun Consiglio nazionale supporti i collegi e gli ordini territoriali nella predisposizione dei PTPC o delle misure di prevenzione della corruzione, al fine di migliorare la mappatura dei processi e la progettazione delle misure di prevenzione della corruzione. Ad esempio possono essere rese disponibili Linee guida e atti di indirizzo ovvero diffusi, a livello territoriale, alcuni contenuti-tipo dei PTPC, a cui gli ordini e collegi possono fare riferimento, ferma restando la necessità di un indispensabile adeguamento dei contenuti, in particolare quanto alle misure concretamente adottate, alle specifiche realtà dei singoli enti. 1.3 Organo che adotta il PTPC o le misure di prevenzione della corruzione Secondo quanto previsto dalla l. 190/2012, il PTPC è adottato dall’organo di indirizzo (art. 1, co. 8). Negli ordini e nei collegi professionali, l’organo in questione è individuato nel Consiglio. Questa indicazione rileva anche ai fini dell’eventuale potere sanzionatorio che ANAC può esercitare ai sensi dell’art. 19, co. 5, del d.l. 90/2014. Tuttavia, per la specificità degli ordini professionali, è raccomandata una consapevole partecipazione e confronto del Consiglio con il RPCT ed, eventualmente, con l’Assemblea degli iscritti. 2. Esemplificazione di aree di rischio specifiche negli ordini e collegi professionali Da una prima analisi delle funzioni svolte dagli ordini e collegi territoriali, cosi’ come dai Consigli nazionali delle professioni, è stato possibile individuare tre macro-aree di rischio specifiche. Per ciascuna area sono state individuate, a titolo esemplificativo e senza pretesa di esaustività, le attività a più elevato rischio di corruzione nonchè esempi di eventi rischiosi e di misure di prevenzione. Nondimeno, si sottolinea che le indicazioni contenute nel presente documento presuppongono la consapevolezza delle diversità di discipline esistenti fra i vari ordinamenti professionali. Inoltre, l’individuazione dei processi a rischio, degli eventi rischiosi e delle misure di prevenzione dovrà poi essere necessariamente contestualizzata nei PTPC dei singoli organismi, alla luce delle peculiarità ordinamentali e disciplinari delle diverse professioni. Si premette che si è ritenuto, in questa fase, di escludere le attività riconducibili alla funzione giurisdizionale propria di alcuni Consigli nazionali (fra cui quelli degli ingegneri, degli architetti e dei geometri), in quanto si tratta di attività di natura non amministrativa, che i Consigli espletano nella loro qualità di giudice speciale, in conformità con i poteri loro espressamente conferiti dalla VI Disposizione transitoria e finale della Costituzione (cfr. sul tema la relazione illustrativa al d.p.r. 7 agosto 2012, n. 137, recante «Riforma degli Ordinamenti Professionali»). Lo stesso vale per i procedimenti disciplinari condotti a livello territoriale, per i quali la recente riforma degli ordinamenti professionali ha previsto l’istituzione dei Consigli di disciplina territoriale, quali organi locali, «diversi da quelli aventi funzioni amministrative», ai quali affidare «l’istruzione e la decisione delle questioni disciplinari», prevedendo altresi’ l’incompatibilità tra la carica di consigliere dell’ordine e quella di membro dei Consigli di disciplina stessi (cfr. art. 3, co. 5, lett. f), decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, come convertito in legge 14 settembre 2011, n. 11). Ai sensi del d.p.r. 137/2012, infatti, la funzione disciplinare viene svolta da consiglieri di disciplina individuati tramite candidature proposte dall’ordine, in numero pari al doppio dei componenti da nominare, e designati dal Presidente del Tribunale in base a tale elenco (art. 8). Fermi restando ulteriori approfondimenti o analisi condotte necessariamente dai singoli enti, di seguito si riporta una prima individuazione esemplificativa delle aree di rischio specifiche: > formazione professionale continua; • rilascio di pareri di congruità (nell’eventualità dello svolgimento di tale attività da parte di ordini e collegi territoriali in seguito all’abrogazione delle tariffe professionali); > indicazione di professionisti per l’affidamento di incarichi specifici. Per ciascuna delle tre aree di rischio si riportano di seguito, in via esemplificativa e non esaustiva, un elenco di processi a rischio, eventi corruttivi e misure di prevenzione. Si ribadisce che l’adozione di queste ultime richiede necessariamente una valutazione alla luce della disciplina dei singoli ordini e collegi professionali e l’effettiva contestualizzazione in relazione alle caratteristiche e alle dimensioni dei singoli ordini e collegi. 2.1 Formazione professionale continua La fonte di disciplina della formazione professionale continua è il Regolamento per l’aggiornamento della competenza professionale emanato dai singoli Consigli nazionali ex art. 7, co. 3, d.p.r. 137/2012 ed eventuali linee di indirizzo/linee guida per l’applicazione dello stesso. Ciascun ordinamento professionale ha, infatti, provveduto all’emanazione di un proprio regolamento in materia di formazione, previo parere favorevole del Ministero vigilante. Per il trattamento di questa specifica area di rischio, si è concentrata l’attenzione sulla corretta identificazione dei processi e sulla corrispondente individuazione del rischio e delle connesse misure di prevenzione, di cui si riporta un elenco esemplificativo. In particolare ci si è soffermati sui seguenti processi rilevanti: • esame e valutazione, da parte dei Consigli nazionali, della domanda di autorizzazione degli “enti terzi” diversi dagli ordini e collegi, erogatori dei corsi di formazione (ex art. 7, co. 2, d.p.r. 137/2012); • esame e valutazione delle offerte formative e attribuzione dei crediti formativi professionali (CFP) agli iscritti; • vigilanza sugli “enti terzi” autorizzati all’erogazione della formazione ai sensi dell’art. 7, co. 2, d.p.r. 137 del 2012, svolta in proprio da parte dei Consigli nazionali o dagli ordini e collegi territoriali; • organizzazione e svolgimento di eventi formativi da parte del Consiglio nazionale e degli ordini e collegi territoriali. Possibili eventi rischiosi: > alterazioni documentali volte a favorire l’accreditamento di determinati soggetti; • mancata valutazione di richieste di autorizzazione, per carenza o inadeguatezza di controlli e mancato rispetto dei regolamenti interni; > mancata o impropria attribuzione di crediti formativi professionali agli iscritti; > mancata o inefficiente vigilanza sugli “enti terzi” autorizzati all’erogazione della formazione; • inefficiente organizzazione e svolgimento delle attività formative da parte del Consiglio nazionale e/o degli ordini e collegi territoriali. Possibili misure • controlli a campione sull’attribuzione dei crediti ai professionisti, successivi allo svolgimento di un evento formativo, con verifiche periodiche sulla posizione complessiva relativa ai crediti formativi degli iscritti; • introduzione di adeguate misure di pubblicità e trasparenza legate agli eventi formativi dei Consigli nazionali e degli ordini e collegi professionali, preferibilmente mediante pubblicazione – nel sito internet istituzionale dell’ente organizzatore – dell’evento e degli eventuali costi sostenuti; • controlli a campione sulla persistenza dei requisiti degli “enti terzi” autorizzati all’erogazione della formazione. 2.2 Adozione di pareri di congruità sui corrispettivi per le prestazioni professionali La fonte della disciplina di questa attività è contenuta nell’art. 5, n. 3), legge 24 giugno 1923 n. 1395, nell’art. 636 c.p.c. e nell’art. 2233 c.c. Nonostante l’abrogazione delle tariffe professionali, ad opera del d.l. 1/2012 (come convertito dalla l. 27/2012), sussiste ancora la facoltà dei Consigli degli ordini territoriali di esprimersi sulla «liquidazione di onorari e spese» relativi alle prestazioni professionali, avendo la predetta abrogazione inciso soltanto sui criteri da porre a fondamento della citata procedura di accertamento. Il parere di congruità resta, quindi, necessario per il professionista che, ai sensi dell’art. 636 c.p.c., intenda attivare lo strumento “monitorio” della domanda di ingiunzione di pagamento, per ottenere quanto dovuto dal cliente, nonchè per il giudice che debba provvedere alla liquidazione giudiziale dei compensi, ai sensi dell’art. 2233 c.c.. Il parere di congruità, quale espressione dei poteri pubblicistici dell’ente, è riconducibile nell’alveo dei provvedimenti di natura amministrativa, necessitando delle tutele previste dall’ordinamento per tale tipologia di procedimenti. Pertanto, nell’eventualità dello svolgimento della predetta attività di valutazione da parte degli ordini o collegi territoriali, possono essere considerati i seguenti eventi rischiosi e misure preventive: Possibili eventi rischiosi • incertezza nei criteri di quantificazione degli onorari professionali; > effettuazione di una istruttoria lacunosa e/o parziale per favorire l’interesse del professionista; • valutazione erronea delle indicazioni in fatto e di tutti i documenti a corredo dell’istanza e necessari alla corretta valutazione dell’attività professionale. Possibili misure • necessità di un regolamento interno in coerenza con la l. 241/1990, ove non già adottato in base all’autonomia organizzativa degli enti, che disciplini la previsione di: a) Commissioni da istituire per le valutazioni di congruità; b) specifici requisiti in capo ai componenti da nominare nelle Commissioni; c) modalità di funzionamento delle Commissioni; • rotazione dei soggetti che istruiscono le domande; • organizzazione delle richieste, raccolta e rendicontazione, su richiesta, dei pareri di congruità rilasciati anche al fine di disporre di parametri di confronto, eventualmente e se sostenibile, con una adeguata informatizzazione, nel rispetto della normativa in materia di tutela della riservatezza dei dati personali. 2.3 Indicazione di professionisti per lo svolgimento di incarichi L’area di rischio riguarda tutte le ipotesi in cui gli ordini sono interpellati per la nomina, a vario titolo, di professionisti ai quali conferire incarichi. Tra le varie fonti di disciplina vi è il decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia. (Testo A)», che prevede, in relazione alle attività di collaudo statico, ad esempio, che «Quando non esiste il committente ed il costruttore esegue in proprio, è fatto obbligo al costruttore di chiedere, anteriormente alla presentazione della denuncia di inizio dei lavori, all’ordine provinciale degli ingegneri o a quello degli architetti, la designazione di una terna di nominativi fra i quali sceglie il collaudatore» (art. 67, co. 4). Vi sono, poi, altri casi in cui normative di settore prevedono ipotesi in cui soggetti pubblici o privati possono rivolgersi agli ordini e collegi territoriali al fine di ricevere un’indicazione sui professionisti iscritti agli albi o registri professionali cui affidare determinati incarichi. Possibili eventi rischiosi Nelle ipotesi sopra descritte e negli altri casi previsti dalla legge, gli eventi rischiosi attengono principalmente alla nomina di professionisti – da parte dell’ordine o collegio incaricato – in violazione dei principi di terzietà, imparzialità e concorrenza. Tale violazione può concretizzarsi, ad esempio, nella nomina di professionisti che abbiamo interessi personali o professionali in comune con i componenti dell’ordine o collegio incaricato della nomina, con i soggetti richiedenti e/o con i destinatari delle prestazioni professionali, o di professionisti che siano privi dei requisiti tecnici idonei ed adeguati allo svolgimento dell’incarico. Possibili misure Le misure preventive potranno, pertanto, essere connesse all’adozione di criteri di selezione di candidati, tra soggetti in possesso dei necessari requisiti, mediante estrazione a sorte in un’ampia rosa di professionisti (come avviene per la nomina dei componenti delle commissioni di collaudo). È di fondamentale importanza, inoltre, garantire la trasparenza e la pubblicità delle procedure di predisposizione di liste di professionisti, ad esempio provvedendo alla pubblicazione di liste on-line o ricorrendo a procedure di selezione ad evidenza pubblica, oltre che all’assunzione della relativa decisione in composizione collegiale da parte dell’ordine o del collegio interpellato. Qualora l’ordine debba conferire incarichi al di fuori delle normali procedure ad evidenza pubblica, sono auspicabili le seguenti misure: • utilizzo di criteri di trasparenza sugli atti di conferimento degli incarichi; • rotazione dei soggetti da nominare; • valutazioni preferibilmente collegiali, con limitazioni delle designazioni dirette da parte del Presidente, se non in casi di urgenza; • se la designazione avviene da parte del solo Presidente con atto motivato, previsione della successiva ratifica da parte del Consiglio; • verifica dell’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interesse nei confronti del soggetto che nomina il professionista a cui affidare l’incarico richiesto, del professionista designato, dei soggetti pubblici o privati richiedenti, del soggetto destinatario delle prestazioni professionali; • eventuali misure di trasparenza sui compensi, indicando i livelli più alti e più bassi dei compensi corrisposti, nel rispetto della normativa dettata in materia di tutela della riservatezza dei dati personali. 3. Trasparenza ai sensi del d.lgs. 33/2013 Chiarita la diretta applicabilità agli ordini e collegi professionali della disciplina contenuta nel d.lgs. 33/2013, in quanto compatibile, secondo quanto già rilevato in premessa, l’Autorità adotterà, come già chiarito nella parte generale al § 7.1., specifiche Linee guida volte a fornire indicazioni per l’attuazione della normativa in questione, da considerare parte integrante del presente PNA. Saranno, pertanto, forniti chiarimenti in ordine al criterio della “compatibilità” e ai necessari adattamenti degli obblighi di trasparenza in ragione delle peculiarità organizzative e dell’attività svolta dagli ordini e collegi professionali, in linea con quanto l’Autorità, per i principali obblighi, ha già dettagliato per le società pubbliche e gli altri enti di diritto privato con determinazione n. 8/2015. IV – ISTITUZIONI SCOLASTICHE Premessa Tenuto conto delle caratteristiche organizzative e dimensionali del settore dell’istruzione scolastica e delle singole istituzioni, della specificità e peculiarità delle funzioni, nonchè della disciplina di settore che caratterizza queste amministrazioni, l’ANAC ha adottato specifiche Linee guida con la delibera n. 430 del 13 aprile 2016 a cui si rinvia integralmente per l’applicazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza nelle istituzioni scolastiche, fatti salvi eventuali adeguamenti degli obblighi, ai sensi del d.lgs. 97/2016, che saranno specificati nelle Linee guida che l’Autorità si riserva di emanare, secondo quanto previsto al § 7.1 «Trasparenza». 1. Precisazioni in merito al RPCT e ai contenuti dei PTPC in relazione al d.lgs. 97/2016 A seguito delle modifiche introdotte dal d.lgs. 97/2016 al d.lgs. 33/2013 e alla l. 190/2012 relativamente all’unicità della figura del RPC e del RT, le funzioni di RPC e RT sono attribuite al Direttore dell’Ufficio scolastico regionale, o per le regioni in cui è previsto, al Coordinatore regionale. In attuazione delle nuove disposizioni normative, si ribadisce, come già indicato nella parte generale del presente PNA al § 5.2. lett. a), che è necessaria la formalizzazione, con apposito atto dell’organo di indirizzo, dell’attribuzione agli attuali RPC anche della responsabilità sulla trasparenza, con l’indicazione della relativa decorrenza. Quanto ai dirigenti scolastici è opportuno che nei PTPC gli stessi siano responsabilizzati, in quanto dirigenti, in ordine alla elaborazione e pubblicazione dei dati sui siti web delle istituzioni scolastiche presso cui prestano servizio. Attraverso un loro attivo e responsabile coinvolgimento all’interno del modello organizzativo dei flussi informativi, viene cosi’ assicurata la prossimità della trasparenza rispetto alla comunità scolastica di riferimento, con la pubblicazione dei dati e delle informazioni previste dalla normativa vigente sui siti delle singole istituzioni scolastiche. Per quanto riguarda i PTPC, a seguito della confluenza dei contenuti del PTTI all’interno del PTPC, a decorrere dal primo aggiornamento ordinario del 31 gennaio 2018, salvo eventuali modifiche anticipate proposte dal RPCT, i PTPC regionali dovranno contenere l’apposita sezione in cui sono indicati i responsabili della trasmissione e della pubblicazione dei documenti, delle informazioni e dei dati ai sensi del d.lgs. 33/2013, come previsto dall’art. 10, co. 1, del medesimo decreto, come sostituito dal d.lgs. 97/2016. 2. Istituzioni dell’Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica (AFAM) L’Autorità ha precisato, nelle Linee guida sopra richiamate, che le istituzioni dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica, che costituiscono il sistema dell’alta formazione e specializzazione artistica e musicale, applicano le disposizioni in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza contenute nella l. 190/2012 e nel d.lgs. 33/2013, in quanto equiparabili alle istituzioni universitarie e, quindi, ricomprese nelle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, co. 2, del d.lgs. 165/2001. Con riguardo alle modalità attuative della normativa, a seguito di un confronto con il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, si precisa che il PTPC delle AFAM è adottato dal Consiglio di amministrazione quale organo di indirizzo di dette istituzioni e che il RPCT è individuato nel Direttore dell’istituzione (conservatorio, accademia, ecc.). Tale figura, si ritiene, possieda sia una profonda conoscenza del funzionamento e dell’organizzazione delle istituzioni in parola, e, dunque, dei fattori di rischio presenti nelle relative aree, sia poteri e funzioni idonee a garantire lo svolgimento dell’incarico con autonomia ed effettività, come richiesto dalla l. 190/2012. V – TUTELA E VALORIZZAZIONE DEI BENI CULTURALI Premessa La specificità del settore dei beni e delle attività culturali, rispetto ad altri ambiti di attività della pubblica amministrazione, risente della peculiarità e della complessità dei beni da tutelare, patrimonio non solo dell’Italia, ma di tutta l’umanità. La scelta di svolgere un approfondimento su questa materia deriva da una pluralità di ragioni. In primo luogo, si tratta di un ambito di elevata complessità giuridico-istituzionale, sia perchè nella regolamentazione del patrimonio culturale si intrecciano numerosi profili di diritto pubblico e di diritto privato, sia perchè vengono coinvolti, a vario titolo, tutti i diversi livelli di governo. In secondo luogo, il settore in questione, negli ultimi anni, è stato oggetto di ripetute riforme legislative e amministrative che hanno interessato, in modo significativo, anche la stessa organizzazione amministrativa del Ministero preposto. In questa prospettiva, l’esemplificazione di eventi rischiosi e misure di prevenzione della corruzione in un contesto di riorganizzazione può rappresentare un utile ausilio per le analisi future. In considerazione dell’ampiezza della materia, l’approfondimento, in questa fase, è stato avviato attraverso l’interlocuzione con il MIBACT, che svolge istituzionalmente a livello nazionale, tramite una fitta rete di uffici periferici (soprintendenze in primis), i compiti di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale. Le prime aree e attività considerate come particolarmente esposte al rischio di eventi corruttivi e di particolare rilevanza sul piano delle funzioni affidate al MIBACT oggetto del presente approfondimento sono: – la verifica di interesse culturale per beni mobili e immobili, inclusi i beni di interesse paesaggistico; – le autorizzazioni all’esportazione e alla circolazione delle opere d’arte e dei beni culturali in genere; – le autorizzazioni paesaggistiche (tutela del paesaggio). Una prima parte dell’approfondimento riguarda aspetti organizzativi relativi alla predisposizione del PTPC e alla nomina del RPCT, anche tenendo conto della diffusa articolazione dell’amministrazione periferica del Ministero. 1. Programmazione delle misure di prevenzione e di trasparenza e nomina del RPCT nel MIBACT Nell’attuale organizzazione del MIBACT, il RPCT è individuato nella persona del Segretario generale, coadiuvato dai “Referenti per l’anticorruzione” individuati nei Direttori generali centrali e nei Segretari regionali. I referenti per la prevenzione svolgono attività informativa nei confronti del Responsabile, affinchè questi abbia elementi e riscontri sull’intera organizzazione e sulle attività dell’amministrazione; il RPCT effettua altresi’ il costante monitoraggio dell’attività svolta dai dirigenti assegnati agli uffici di riferimento, anche in relazione all’adozione di misure gestionali per assicurare la rotazione del personale. La distribuzione capillare sul territorio delle strutture del MIBACT e l’attribuzione delle funzioni di “stazioni appaltanti”, attualmente affidate ai Segretariati regionali e agli istituti e musei di rilevante interesse nazionale, tuttavia, fanno nascere l’esigenza di prevenire e contrastare il rischio corruzione a questo livello organizzativo. A tale scopo, il Ministero può affidare agli stessi Segretari regionali e ai direttori dei musei di cui all’art. 30, co. 3, del d.p.c.m. 171/2014 il ruolo di RPCT a livello territoriale. In tale ipotesi, questi ultimi sono tenuti a predisporre appositi PTPC coerenti con le indicazioni date a livello centrale con il PTPC del Ministero. 2. Procedimento per la dichiarazione di interesse culturale La scelta di analizzare questo procedimento è nata da una valutazione degli interessi coinvolti all’interno delle singole fasi istruttorie e decisionali. Si tratta di un procedimento, strutturato su più livelli e secondo diverse fattispecie normative delineate all’interno del Codice dei beni culturali e del paesaggio (decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42), in cui si opera un bilanciamento costante tra interesse del singolo e interesse della collettività, con provvedimenti finali autoritativi che incidono in modo economicamente rilevante nella sfera giuridica dei singoli, sia persone fisiche che giuridiche. Con l’entrata in vigore del Codice dei beni culturali e del paesaggio è stata infatti introdotta la norma che prevede l’accertamento specifico dell’interesse culturale delle cose appartenenti a soggetti pubblici o privati senza scopo di lucro (c.d. verifica di interesse culturale), ponendo fine ad un sistema che produceva notevoli incertezze, sia per la sottrazione all’obbligo dell’inserimento in elenchi delle cose mobili e immobili dello Stato – per i quali non era previsto nessun meccanismo di individuazione – sia per la generale inosservanza dell’obbligo nei casi previsti. In particolare, l’art. 12 del d.lgs. 42/2004 prevede che le cose mobili e immobili appartenenti ad enti pubblici e a persone giuridiche private senza scopo di lucro, che rivestano interesse artistico, storico o di altro tipo, risalgano ad oltre cinquant’anni, se mobili, o settanta anni, se immobili, e siano di autore non più vivente, vengano sottoposte ad un apposito procedimento di verifica, volto ad accertare la sussistenza o meno di un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico. In attesa della verifica, tali cose sono in via provvisoria soggette alla disciplina di tutela prevista dal Codice. L’esito della verifica – che è promossa d’ufficio o su richiesta del soggetto proprietario – se positivo, comporta la definitiva sottoposizione del bene alla disciplina di tutela, se negativo, la fuoruscita da detta disciplina. Il procedimento concernente la dichiarazione di interesse culturale è disciplinato dagli artt. 12 e seguenti del d.lgs. 42/2004 e s.m.i., nonchè dagli artt. 33 lettera l) e 39 del d.p.c.m. 29 agosto 2014, n. 171 recante «Regolamento di organizzazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, degli uffici di diretta collaborazione del Ministro e dell’Organismo indipendente di valutazione della performance, a norma dell’articolo 16, comma 4, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazione, dalla legge n. 89 del 23 giugno 2014». Lo stesso si articola secondo tre linee procedimentali, a seconda del soggetto interessato dal vincolo o dalla tipologia di bene oggetto di valutazione finalizzata alla apposizione di un vincolo di tutela: 1) la verifica di interesse culturale per beni mobili e immobili di proprietà di enti pubblici o persone giuridiche private senza fini di lucro di cui all’art. 12 del Codice; 2) la dichiarazione di interesse culturale per beni mobili e immobili appartenenti a soggetti privati di cui all’art. 13 del Codice; 3) la dichiarazione di notevole interesse pubblico per beni paesaggistici di cui all’art. 138 del Codice. Il procedimento di verifica o di dichiarazione si sviluppa nelle seguenti fasi: – avvio del procedimento: ai sensi dell’art. 12 o dell’art. 14, co. 1, del d.lgs. 42/2004, da parte del Soprintendente. Per la verifica è ammessa la richiesta da parte dei soggetti interessati; – fase istruttoria di accertamento dell’interesse culturale: l’accertamento della sussistenza, nella “cosa” indagata, del livello di interesse culturale prescritto dalla normativa di tutela e la comunicazione, agli aventi diritto, degli esiti di detto accertamento, di carattere tecnico-discrezionale, costituisce il contenuto pressochè integrale del procedimento in questione; – il Soprintendente invia la proposta di dichiarazione alla Commissione regionale per il patrimonio culturale, prevista dal d.p.c.m. 171/2014, art. 39, la quale verifica la sussistenza dell’interesse; – il provvedimento finale (decreto o comunicazione di parere negativo) è adottato dalla Commissione regionale con firma del Segretario regionale, che la presiede, e viene trasmesso alla Soprintendenza (Servizio affari legali) che provvede alla notifica dello stesso agli interessati e alla trascrizione presso i registri della Conservatoria; – in caso di verifica negativa (art. 12 del d.lgs. 42/2004) la scheda contenente i relativi dati è trasmessa ai competenti uffici affinchè ne dispongano la sdemanializzazione e i beni per i quali si sia proceduto alla sdemanializzazione sono liberamente alienabili, ai fini del Codice; – nel caso di verifica con esito positivo l’accertamento dell’interesse costituisce dichiarazione ai sensi dell’art. 13 del d.lgs. 42/2004 (dichiarazione dell’interesse culturale) ed il relativo provvedimento è trascritto nei modi previsti dalla legge. I beni restano in questo caso definitivamente sottoposti alle disposizioni del Codice; – le schede descrittive oggetto di verifica con esito positivo confluiscono in un archivio informatico (17) conservato presso il Ministero e accessibile al Ministero e all’Agenzia del demanio, per finalità di monitoraggio del patrimonio immobiliare e di programmazione degli interventi in funzione delle rispettive competenze istituzionali: l’aggiornamento dell’archivio informatico, la notifica e la trascrizione del decreto sono a cura del Segretariato regionale; – i procedimenti, di verifica e di dichiarazione, si concludono entro 120 gg. dalla notifica al proprietario dell’avviso di avvio del procedimento; qualora il procedimento sia iniziato su impulso del proprietario del bene e non si concluda entro i 120 gg. previsti, gli interessati possono diffidare il Ministero a provvedere, e agire avverso il silenzio ai sensi di legge; – entro 30 gg. dalla notifica della dichiarazione o degli esiti della verifica, è ammesso ricorso amministrativo al Ministero per motivi di legittimità e di merito; in tale ipotesi si determina la sospensione degli effetti del provvedimento impugnato, fermo restando l’applicazione, in via cautelare, delle disposizioni previste dal d.lgs. 42/2004, nella Parte Seconda Titolo I e precisamente al Capo II, al Capo III Sezione I e Capo IV Sezione I (approvazione di opere e lavori, denuncia degli atti di trasferimento della proprietà o della detenzione, ecc.). Il Ministero, nello specifico la Commissione Regionale, sentito il competente organo consultivo, decide sul ricorso entro novanta giorni dalla presentazione dello stesso, e qualora venga accolto procede all’annullamento in autotutela od alla modifica del provvedimento medesimo. Sono inoltre ammesse proposizioni di ricorso giurisdizionale al TAR competente, a norma degli artt. 2 e 20 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 e successive modificazioni, ovvero ricorso straordinario al Capo dello Stato ai sensi del d.p.r. 20 novembre 1971, n. 1199. L’analisi del contesto interno in cui si sviluppa il procedimento ha evidenziato una serie di possibili eventi rischiosi, collegabili tanto agli aspetti organizzativi che di regolamentazione del processo, trattandosi peraltro di fasi procedimentali che coinvolgono più amministrazioni ed uffici, oltre che utenti privati destinatari del provvedimento finale, da cui derivano una serie di obblighi e limiti: denunzia di trasferimento delle opere per cambio di residenza, denunzia di trasferimento di proprieta\detenzione, divieto di trasferimento all’estero, sanzioni. L’impatto del provvedimento, risultante da un specifica valutazione tecnico/scientifica, costituisce un primo fattore di rischio corruttivo. Il rischio di ingerenze si ripropone su più livelli intermedi, declinabili dalla fase istruttoria fino alla fase decisoria, con fasi endoprocedimentali, relativi per esempio alla imposizione di prescrizioni, i cui esiti, pur potendo modificare in maniera rilevante i diritti dei singoli, sono di difficile predeterminazione. Posto che l’evento corruttivo consista, nel procedimento esaminato, nell’apposizione o nella mancata apposizione illegittima di un vincolo, nell’adozione di prescrizioni irragionevoli o, comunque, in valutazioni negligenti e/o arbitrarie, il rischio che esso si possa verificare è particolarmente presente nella fase istruttoria, affidata normalmente ad un unico funzionario che, per la conoscenza che ha del territorio, da cui deriva la sua competenza, è esposto ad ingerenze esterne o all’interesse personale. L’aver demandato, in virtù dell’art. 39 d.p.c.m. 171/2014, alla Commissione regionale il momento finale del procedimento costituisce – per questa fase – sicuramente un’evoluzione in termini di trasparenza e garanzia, stante la collegialità della decisione assunta nel contraddittorio fra le diverse posizioni soggettive coinvolte e potendo la Commissione emettere il provvedimento finale o imporre prescrizioni, sia sull'”an” del vincolo, sia sul “quomodo”, diverse da quelle proposte dal Soprintendente che ha avviato il procedimento. Sotto quest’ultimo profilo, è raccomandabile, come misura organizzativa e gestionale generale, l’implementazione di un sistema informativo che possa consentire un monitoraggio – da parte della Commissione regionale e della stessa Direzione generale – dei tempi di avvio e gestione delle procedure. Ciò al fine di controllare il rispetto della cronologia delle pratiche avviate a seguito della preistruttoria relativa alla ammissibilità stessa del procedimento. In tal modo si potrebbe fornire un quadro generale degli esiti del procedimento (privo, allo stato, di evidenza esterna) e delle motivazioni fornite nel decreto finale, consentendo di intercettare eventuali anomalie e di armonizzare le prassi valutative. Come in casi analoghi, inoltre, la rotazione degli incarichi e l’adozione di strumenti di emersione di eventuali conflitti di interessi (anche solo nella forma di una dichiarazione attestante l’assenza di conflitti sottoscritta dal funzionario in rapporto a ciascun procedimento gestito) consentirebbe un maggior controllo sull’esercizio imparziale del potere autoritativo rimesso alle Soprintendenze. Infine, l’introduzione di un obbligo relativo alla pubblicazione delle schede descrittive dei beni sia da parte del proprietario che della soprintendenza sul sito www.benitutelati.it, andando a soddisfare l’esigenza di trasparenza, garantirebbe una maggiore imparzialità dell’azione amministrativa. Più in generale, un rafforzamento degli obblighi di comunicazione e trasparenza da parte delle Commissioni regionali e delle Soprintendenze su tutta l’attività espletata in materia di apposizione dei vincoli, potrebbe consentire il raggiungimento di una maggiore omogeneità e coerenza dei criteri decisionali e valutativi. Invero, consentendo alla ormai costituita Direzione Unitaria dell’Archeologia e delle Belle Arti e Paesaggio una capacità di coordinamento e controllo dell’attività di tutela nello specifico settore, si potrebbe assicurare, nel rispetto degli inderogabili principi di parità di trattamento e di imparzialità dell’azione amministrativa, un’attività di tutela il più possibile omogenea sull’intero territorio nazionale, ma attenta, allo stesso tempo, alle peculiarità di ciascun ambito territoriale regionale. 3. Circolazione internazionale intracomunitaria dei beni culturali All’interno del vasto quadro di funzioni pubbliche in materia di tutela dei beni culturali, un ruolo particolare è quello della regolamentazione dell’esportazione e della circolazione delle opere d’arte (18), tema di estrema delicatezza per la finalità strategica di difesa dell’integrità del patrimonio culturale. Due sono le principali finalità delle norme in materia di circolazione: assicurare che i beni culturali rimangano di proprietà pubblica o siano acquisiti dallo Stato; garantire che tali beni non siano portati definitivamente al di fuori del territorio nazionale. Un esempio della prima finalità è quello dell’istituto della prelazione storico-artistica, che consente allo Stato (e agli enti territoriali e locali) di acquistare beni alienati tra privati oppure di espropriarli. Un esempio della seconda è dato dai limiti posti sia all’alienabilità del demanio culturale sia all’uscita dei beni dal territorio nazionale. In considerazione della finalità generale volta al contemperamento di interessi privati collegati e subalterni, e alla tutela di interessi pubblici prevalenti di rango costituzionale (art. 9 Cost.), gli eventi rischiosi da prevenire sono collegati all’assunzione di decisioni (di assetto di interessi a conclusione di procedimenti, di determinazioni di fasi interne a singoli procedimenti, di gestione di risorse pubbliche) devianti dalla cura dell’interesse generale. Di seguito ci si sofferma, in particolare sul procedimento di rilascio dell’attestato di libera circolazione previsto all’art. 68 del Codice dei beni culturali, strumento utilizzato per consentire l’uscita di beni culturali dal territorio della Repubblica italiana, in via definitiva e senza danni per il patrimonio nazionale. In ogni caso, il procedimento, oltre a poter dar luogo all’apposizione di un vincolo di interesse culturale che ne inibisca l’esportazione, può condurre alla proposta di acquisto del bene. Gli eventi rischiosi connessi a tale procedimento attengono: a) ad una deviazione dalle regole procedimentali tale da determinare, anche per pressioni esterne, un’illecita uscita definitiva del bene culturale dal territorio nazionale; b) ad una valutazione non congrua del valore venale del bene (19). La competenza relativa al rilascio di autorizzazioni di esportazione/importazione per beni culturali è attribuita agli uffici esportazione, istituiti presso diciotto Soprintendenze. Detti uffici, diffusi su tutto il territorio nazionale, risultano, tuttavia, privi di una competenza territoriale. Ciò consente ai privati di poter scegliere, anche sulla base di valutazioni opportunistiche (in ragione, ad esempio, di rapporti di conoscenza ed interesse maturati tra il privato e i funzionari che vi operano), l’ufficio al quale rivolgersi per ottenere il rilascio dell’autorizzazione e prima ancora la valutazione del bene. In base all’attuale normativa, inoltre, i privati detentori di beni possono reiterare la richiesta di autorizzazione in uffici esportazione diversi, anche se non contemporaneamente, ritirando l’istanza, prima della pronuncia finale e a seguito della comunicazione di un preavviso di diniego, allo scopo di ottenere una valutazione che si discosti da quella precedentemente formulata. Attualmente, infatti, non esiste un sistema condiviso da tutti gli uffici esportazione di tracciatura delle domande presentate dai privati. Un ulteriore fattore di rischio è individuabile nel ruolo e nel funzionamento della commissione, costituita da tre esperti scelti a rotazione tra i funzionari tecnici del territorio (due storici dell’arte e un archeologo), che deve effettuare la valutazione tanto della congruità del valore del bene quanto della certificazione di interesse pubblico con apposizione dei limiti alla sua circolazione. Al riguardo, la principale causa di eventi rischiosi è connessa alla genericità e al non aggiornamento dei criteri a cui la Commissione si attiene nel corso di tale valutazione, risalenti ad una circolare del 1974, emanata dall’allora Ministero della pubblica istruzione. Si tratta di criteri che lasciano ampia discrezionalità in capo alla Commissione e ai singoli funzionari. Una necessaria misura preventiva è costituita dall’emanazione, da parte del MIBACT, di indirizzi di carattere generale (previsti dall’art. 71, co. 4 del Codice) e vincolanti per i diversi uffici esportazione, in modo che la valutazione circa il rilascio o il rifiuto dell’attestato sia effettuata sulla base di prassi e procedure uniformi. Ciò consentirebbe di ancorare l’esercizio della discrezionalità dei vari uffici a criteri oggettivi, assicurando l’imparzialità del giudizio tecnico. Un ulteriore criticità è da ravvisarsi nell’assenza, nei criteri adottati per la nomina dei membri della Commissione esportazione, di adeguate misure di prevenzione dei conflitti di interesse. Si evidenzia, infatti, che gli esperti che compongono la commissione, in virtù dell’esperienza acquisita sul campo, possono offrire anche consulenze esterne ad antiquari e case d’asta; sarebbe utile, pertanto, per scongiurare i rischi connessi a valutazioni di comodo, volte a favorire l’acquisizione privata del bene, la sottoscrizione di una dichiarazione relativa all’assenza di conflitti di interessi, attuali o potenziali, al momento di assunzione dell’incarico. In aggiunta a tale misura, può essere utile l’istituzione di uno specifico albo da cui estrarre i membri della Commissione, che consentirebbe la trasparenza delle procedure di nomina, l’effettività della rotazione, la valutazione circa la sussistenza dei requisiti scientifici di idoneità all’incarico nonchè l’identificazione di potenziali conflitti di interesse tra i membri della commissione e i soggetti richiedenti. Ulteriori misure preventive possono, poi, riguardare: – lo sviluppo del Sistema informativo degli Uffici Esportazione (SUE), attualmente utilizzato non da tutti gli uffici territoriali, al fine di consentire ad ogni ufficio esportazione di conoscere in tempo reale le decisioni adottate dagli uffici omologhi e di essere aggiornato sull’eventuale riproposizioni delle richieste in differenti uffici a seguito di un precedente diniego; – la fissazione delle competenze territoriali degli uffici esportazione; – la rotazione, ove possibile, dei funzionari responsabili del procedimento. 4. Autorizzazioni paesaggistiche: il ruolo delle Soprintendenze Il procedimento in esame – che non include quello semplificato ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 9 luglio 2010, n. 139, «Regolamento recante procedimento semplificato di autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve entità, a norma dell’articolo 146, comma 9, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, e successive modificazioni» – si articola nelle seguenti fasi: – istanza da parte del soggetto di cui all’art. 146, co. 1, del Codice; – istruttoria da parte della regione o del comune subdelegato; – trasmissione dell’istanza ad opera della amministrazione competente al Soprintendente e contestuale avviso di avvio del procedimento al soggetto interessato; – parere di compatibilità e conformità reso dal Soprintendente; – fase conclusiva del procedimento (eventuale preavviso di procedimento negativo, trasmissione del parere, autorizzazione o diniego). L’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio. Nell’ambito del procedimento si esamina, in particolare, il ruolo svolto dalle Soprintendenze nel rilascio del parere. Si tratta di un atto vincolante, che va trasmesso all’amministrazione competente al rilascio del provvedimento finale (comune o regione) e riveste un ruolo di fondamentale importanza ai fini dell’ottenimento dell’autorizzazione. Le principali cause di rischio e i principali eventi rischiosi si individuano: • nell’elevata discrezionalità tecnica legata al rilascio del parere da parte del Soprintendente/responsabile del procedimento. Le scelte dell’amministrazione sono basate su regole e parametri di natura tecnica e scientifica specialistica. L’elevato tasso di discrezionalità tecnica caratterizzante il parere della Soprintendenza è rapportato alla tipologia di vincolo apposto sul bene. Vincolare senza prescrizione un’area molto vasta lascia ampi margini di valutazione. Pertanto, in presenza di vincoli c.d. “nudi” la ponderazione degli interessi da parte dei funzionari sull’uso del bene è assai elevata, in quanto detti vincoli derivano da provvedimenti di tutela dei beni paesaggistici che, riducendosi ad un mero divieto di trasformazione del territorio, non indicano l’essenza valoriale e differenziata del bene vincolato. Diversamente, minor grado di discrezionalità si può avere nel caso di vincoli c.d. “vestiti”. Tali vincoli si caratterizzano per la presenza di prescrizioni relative all’uso dell’area oggetto del procedimento, presentando un contenuto regolativo e prescrittivo che, in quanto operato “a monte”, circoscrive l’oggetto del parere di merito e con esso la discrezionalità del Soprintendente e del responsabile del procedimento. Gli eventi rischiosi si possono concretizzare in varie forme di condizionamento della fase istruttoria per pressioni esterne, ovvero nella non corretta e adeguata ponderazione dei diversi interessi da contemperare; • nella complessità del processo di autorizzazione che prevede il coinvolgimento di più amministrazioni. Eventi rischiosi possono annidarsi tanto nel rapporto tra soggetto richiedente e amministrazione competente (regione, comune), quanto nel rapporto tra lo stesso e la Soprintendenza competente, se non addirittura nel rapporto tra funzionario responsabile per il rilascio del parere ed ente competente al rilascio dell’autorizzazione (ad esempio in ipotesi di inerzia da parte del Soprintendente volta a far decorrere il termine per il rilascio del parere rimettendo, pertanto, all’amministrazione competente la pronuncia sulla domanda di autorizzazione – cfr. art. 146, co. 9 del Codice). Evento rischioso suscettibile di condizionare lo svolgimento corretto del processo potrebbe essere, invece, il rilascio del parere o proprio della stessa autorizzazione paesaggistica, sulla base di una falsa attestazione da parte dell’ente a ciò deputato; • nell’inadeguatezza delle strutture nel dare una risposta celere alle istanze con conseguente dilatazione dei termini di definizione del procedimento. In tali casi, ad esempio, condotte “inerti” possono dar luogo a criticità procedimentali cui potrebbe ovviarsi con una maggiore attenzione all’organizzazione e alla distribuzione del personale in organico; • nella presenza di eventuali interessi privati e nel collegamento territoriale tra utente/istante e funzionario/responsabile del procedimento. Tali collegamenti potrebbero favorire dinamiche improprie nella gestione dell’istruttoria con conseguente condizionamento dell’esito finale del processo di autorizzazione. Occorre sul punto considerare che i funzionari di zona depositari di una conoscenza capillare del territorio in cui operano sono maggiormente esposti, per prossimità e consuetudine, all’esercizio di pressioni esterne di interessi particolari e soggettivi. Al riguardo possono ipotizzarsi le seguenti misure preventive: • sul piano normativo, sembrerebbe opportuno un adeguamento della normativa vigente in materia di vincoli sui beni paesaggistici, introducendo idonei meccanismi sanzionatori o incentivanti affinchè si possa effettivamente provvedere alla vestizione dei c.d. “vincoli nudi” (come già previsto dal 2008). Possono essere valutate positivamente, inoltre, alcune misure, quale quella introdotta dal d.l. 83/2014, art. 12, co. 1-bis (poi confluito nel d.p.c.m. 171/2014) ove si prevede che ogni decisione di un soprintendente possa comunque essere riesaminata dalla Commissione regionale, anche su segnalazione di altre amministrazioni. Tali misure, infatti, si sono già dimostrate efficaci sul piano della previsione di eventi corruttivi, allargando la responsabilità della decisione a un organo collegiale che può comunque ribaltare la decisione di un singolo; • sul piano gestionale, sarebbe opportuno realizzare sistemi che assicurino la trasparenza, il controllo e monitoraggio del procedimento in ogni sua fase, consentendo di pervenire ad un quadro il più possibile completo sia del numero dei procedimenti trattati che dei relativi esiti (positivi, negativi o derivante da inerzia e dalla conseguente formazione del c.d. silenzio-assenso). Anche in questo caso è un segnale positivo la previsione di cui all’art. 12, co. 1-ter, del d.l. 83/2014 (poi ripresa dal citato d.p.c.m. 171 del 2014), in base alla quale tutti gli atti aventi rilevanza esterna e i provvedimenti adottati dagli organi centrali e periferici del MIBACT, nell’esercizio delle funzioni di tutela e valorizzazione di cui al codice dei beni culturali e del paesaggio, debbono essere pubblicati integralmente sul sito internet del Ministero e in quello, ove esistente, dell’organo che ha adottato l’atto. Per ogni procedimento vanno indicati la data di inizio, lo stato di avanzamento, il termine di conclusione e l’esito dello stesso; • sul piano organizzativo, sarebbero utili misure di rotazione dei funzionari di zona adeguatamente programmate nel tempo, all’interno della medesima Soprintendenza, nei limiti indicati per queste misure nella Parte generale (§ 7.2); • quanto alla prevenzione del conflitto di interessi, si può ipotizzare l’assunzione di responsabilità da parte del titolare del procedimento, attraverso la sottoscrizione di un’attestazione di insussistenza di rapporti personali o familiari con l’istante. VI – GOVERNO DEL TERRITORIO Premessa Con l’espressione “governo del territorio”, nel presente PNA, si fa riferimento ai processi che regolano la tutela, l’uso e la trasformazione del territorio. A tale ambito si ascrivono principalmente i settori dell’urbanistica e dell’edilizia, come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale sull’attribuzione alle regioni della potestà legislativa concorrente in materia (20). Il governo del territorio rappresenta da sempre, e viene percepito dai cittadini, come un’area ad elevato rischio di corruzione, per le forti pressioni di interessi particolaristici, che possono condizionare o addirittura precludere il perseguimento degli interessi generali. Le principali cause di corruzione in questa materia sono determinate da: a) estrema complessità ed ampiezza della materia, che si riflette nella disorganicità, scarsa chiarezza e stratificazione della normativa di riferimento e perdurante vigenza di una frammentaria legislazione precostituzionale ancorata alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150. Tale complessità si ripercuote negativamente: sull’individuazione e delimitazione delle competenze spettanti alle diverse amministrazioni coinvolte e dei contenuti – con possibili duplicazioni – dei rispettivi, diversi, atti pianificatori; sui tempi di adozione delle decisioni; sulle risorse pubbliche; sulla fiducia dei cittadini, dei professionisti e degli imprenditori nell’utilità, nell’efficienza e nell’efficacia del ruolo svolto dai pubblici poteri; b) varietà e molteplicità degli interessi pubblici e privati da ponderare, che comportano che gli atti che maggiormente caratterizzano il governo del territorio – i piani generali dei diversi livelli territoriali – presentino un elevato grado di discrezionalità; c) difficoltà nell’applicazione del principio di distinzione fra politica e amministrazione nelle decisioni, le più rilevanti delle quali di sicura valenza politica; d) difficile applicazione del principio di concorrenza fra i soggetti privati interessati, condizionata dall’assetto della proprietà delle aree sulle quali incidono le scelte di destinazione territoriale e urbanistica; e) esistenza, alla base delle scelte di pianificazione, di asimmetrie informative tra soggetti pubblici e privati, accompagnate dalla difficoltà nelle predeterminazione dei criteri di scelta; f) ampiezza delle rendite immobiliari in gioco. Il rischio corruttivo è trasversale e comune a tutti i processi dell’area governo del territorio, a prescindere dal contenuto (generale o speciale) e dagli effetti (autoritativi o consensuali) degli atti adottati (piani, programmi, concessioni, accordi, convenzioni); la gran parte delle trasformazioni territoriali ha conseguenze permanenti, che possono causare la perdita o il depauperamento di risorse non rinnovabili, prima fra tutte il suolo, le cui funzioni sono tanto essenziali quanto infungibili per la collettività e per l’ambiente. La prevenzione e il contrasto del rischio traversale di sviamento dall’interesse pubblico primario alla sostenibilità dello sviluppo urbano e dagli obiettivi di politica territoriale dichiarati richiedono che, nella mappatura di tutti i processi che riguardano il governo del territorio, siano precisati, preliminarmente, i criteri e le specifiche modalità delle verifiche previste, per accertare la compatibilità tra gli effetti delle trasformazioni programmate e la salvaguardia delle risorse ambientali, paesaggistiche e storico culturali che costituiscono il patrimonio identitario delle popolazioni insediate nello specifico contesto territoriale. Nella presente analisi saranno maggiormente approfonditi alcuni, specifici, rischi corruttivi che riguardano i più significativi processi pianificatori di livello comunale, salvo brevi riferimenti alla pianificazione di livello superiore. Sono state rinviate ad una fase futura le esemplificazioni relative ai processi pianificatori che riguardano altre materie, pur strettamente connesse al governo del territorio (piani ambientali, piani paesaggistici, ecc.). Tale scelta non intende in alcun modo sottovalutare i rischi corruttivi relativi a tali processi, nè intende suggerire una minore attenzione per le amministrazioni – statali, regionali e provinciali/metropolitane – responsabili degli stessi. In conformità a quanto previsto dall’art. 1, co. 2-bis della l. 190/2012, sono anche individuate misure organizzative di prevenzione della corruzione. Si ribadisce che si tratta di esempi volti a fornire alle amministrazioni e agli enti indicazioni e orientamenti per supportare l’elaborazione dei PTPC. La concreta adozione di tali misure richiede la loro necessaria contestualizzazione e il loro necessario adeguamento rispetto alle dimensioni e alle caratteristiche organizzative di ogni ente a seguito dell’analisi e della valutazione del rischio corruttivo e in coerenza con il principio di non aggravamento procedimentale e organizzativo. Vista la particolare complessità della normativa del governo del territorio l’Autorità si riserva, proprio nel rispetto dei principi sopra esposti, di verificare l’attuazione e la funzionalità delle misure proposte. 1. Pianificazione territoriale regionale, provinciale o metropolitana La pianificazione territoriale, sia essa di carattere generale sia essa di carattere settoriale, di livello regionale, provinciale, metropolitano o d’area vasta, pur assumendo nelle legislazioni regionali denominazioni talvolta differenti, è regolamentata in maniera analoga, per i profili concernenti la trasparenza e la partecipazione alle diverse fasi in cui si articola la procedura di approvazione (formazione, adozione e approvazione del piano). Molte legislazioni regionali prevedono, infatti, peculiari forme di pubblicità dell’atto con cui l’organo di governo manifesta la volontà di procedere all’elaborazione del piano territoriale o sua variante, disciplinando già in questa fase la partecipazione dei portatori di interesse. Con riferimento alla fase di adozione dell’atto di pianificazione regionale, le discipline regionali sono sostanzialmente omogenee, prevedendo ampie forme di pubblicità tra cui la consultazione degli atti via web, e presso le sedi regionali, provinciali, spesso anche presso le sedi comunali, garantendo a tutti i portatori di interesse la possibilità di accedere agli atti e di esprimere le proprie osservazioni. Con riferimento, infine, alla fase di approvazione, la proposta di atto di pianificazione territoriale viene elaborata con apposito atto motivato (anche sull’accoglimento delle osservazioni) e trasmessa al Consiglio regionale per l’approvazione definitiva. Nel fare riserva di approfondimenti successivi, in questa sede si considerano possibili fenomeni corruttivi che si possono manifestare allorchè quei piani sovracomunali, tematici o settoriali, prevedano l’apposizione di discipline di tutela (principalmente ambientale o paesaggistica) che comportano significative limitazioni all’uso o alla trasformazione del territorio. Il livello di esposizione al rischio può essere più marcato nel caso di procedure di approvazione di varianti specifiche (o di approvazione di progetti in variante alla pianificazione sovracomunale) che prevedano modifiche cartografiche, in riduzione degli ambiti vincolati o che attenuino le tutele. In tali casi, per la prevenzione del rischio, trovano applicazione misure analoghe a quelle indicate nel successivo § 2. 2. Processi di pianificazione comunale generale Il modello della pianificazione disciplinato dalla legge urbanistica 1150/1942 prevede il piano regolatore generale (p.r.g.), che presenta, oltre ad un contenuto direttivo e programmatico, prescrizioni vincolanti per i privati, con effetti conformativi della proprietà. Esso può essere ricondotto ai piani comunali generali, ovvero a quegli strumenti di pianificazione urbanistica che hanno ad oggetto l’intero territorio comunale. Le leggi regionali hanno introdotto propri modelli di pianificazione urbanistico-territoriale e sono intervenute sulla struttura, sul contenuto e sugli effetti giuridici della pianificazione urbanistica comunale, che può articolarsi cosi’ su più livelli. Di conseguenza, il panorama attuale dei piani comunali generali si presenta molto variegato e complesso. Pertanto, anche la mappatura dei processi di pianificazione generale e l’individuazione dei rischi corruttivi che ne derivano dovranno essere dimensionate e calibrate da ogni amministrazione interessata in rapporto a tale complessità e varietà. Di seguito si indicano alcuni eventi rischiosi, aggregati per fasi del processo, che possono considerarsi comuni ai vari modelli adottati dalle regioni ed alcune misure per prevenirli. 2.1 Varianti specifiche Possibili eventi rischiosi Anche le varianti specifiche allo strumento urbanistico generale, siano esse approvate con iter ordinario, ovvero attraverso i numerosi procedimenti che consentono l’approvazione di progetti con l’effetto di variante agli strumenti urbanistici, sono esposte a rischio e necessitano di misure preventive integrative, laddove dalle modifiche derivi per i privati interessati un significativo aumento delle potestà edificatorie o del valore d’uso degli immobili interessati. I rischi connessi a tali varianti risultano relativi, in particolare: alla scelta o al maggior consumo del suolo finalizzati a procurare un indebito vantaggio ai destinatari del provvedimento; alla possibile disparità di trattamento tra diversi operatori; alla sottostima del maggior valore generato dalla variante. Possibili misure Anche i processi relativi a queste varianti è necessario siano mappati in relazione ai contenuti della variante e all’impatto che gli stessi possono generare, per valutare il livello di rischio che comportano e stabilire, di conseguenza, le misure di prevenzione da assumere, secondo quanto evidenziato nel presente approfondimento per le diverse tipologie di strumenti urbanistici e le relative fasi. 2.2 Fase di redazione del piano Possibili eventi rischiosi Alcuni eventi rischiosi sono connessi alle modalità e alle tecniche di redazione del piano o delle varianti. La mancanza di chiare e specifiche indicazioni preliminari, da parte degli organi politici, sugli obiettivi delle politiche di sviluppo territoriale alla cui concretizzazione le soluzioni tecniche devono essere finalizzate, può impedire una trasparente verifica della corrispondenza tra le soluzioni tecniche adottate e le scelte politiche ad esse sottese, non rendendo evidenti gli interessi pubblici che effettivamente si intendono privilegiare. Tale commistione tra soluzioni tecniche e scelte politiche è ancor più rimarcata nel caso in cui la redazione del piano è prevalentemente affidata a tecnici esterni all’amministrazione comunale. Possibili misure • In caso di affidamento della redazione del piano a soggetti esterni all’amministrazione comunale, è necessario che l’ente renda note le ragioni che determinano questa scelta, le procedure che intende seguire per individuare il professionista, cui affidare l’incarico e i relativi costi, nel rispetto della normativa vigente in materia di affidamento di servizi e, comunque, dei principi dell’evidenza pubblica; il comune, specialmente se di piccole dimensioni, può valutare preventivamente la possibilità di associarsi con comuni confinanti per la redazione dei rispettivi piani, con conseguente risparmio di costi e possibilità di acquisire una visione più ampia e significativa di contesti territoriali contigui e omogenei. In ogni caso, è opportuno che lo staff incaricato della redazione del piano sia interdisciplinare (con la presenza di competenze anche ambientali, paesaggistiche e giuridiche) e che siano comunque previste modalità operative che vedano il diretto coinvolgimento delle strutture comunali, tecniche e giuridiche; • la verifica dell’assenza di cause di incompatibilità o casi di conflitto di interesse in capo a tutti i soggetti appartenenti al gruppo di lavoro; • anteriormente all’avvio del processo di elaborazione del piano, l’individuazione da parte dell’organo politico competente degli obiettivi generali del piano e l’elaborazione di criteri generali e linee guida per la definizione delle conseguenti scelte pianificatorie. In quest’ottica è utile prevedere che, in fase di adozione dello strumento urbanistico, l’amministrazione comunale effettui un’espressa verifica del rispetto della coerenza tra gli indirizzi di politica territoriale e le soluzioni tecniche adottate e apporti i conseguenti correttivi; • può, altresi’, essere opportuno dare ampia diffusione di tali documenti di indirizzo tra la popolazione locale, prevedendo forme di partecipazione dei cittadini sin dalla fase di redazione del piano, attraverso strumenti da configurarsi in analogia, ad esempio, a quello dell’udienza pubblica, prevista nella VIA, in modo da acquisire ulteriori informazioni sulle effettive esigenze o sulle eventuali criticità di aree specifiche, per adeguare ed orientare le soluzioni tecniche, ma anche per consentire a tutta la cittadinanza, cosi’ come alle associazioni e organizzazioni locali, di avanzare proposte di carattere generale e specifico per riqualificare l’intero territorio comunale, con particolare attenzione ai servizi pubblici. 2.3 Fase di pubblicazione del piano e raccolta delle osservazioni Possibili eventi rischiosi In questa fase possono verificarsi eventi rischiosi a causa di asimmetrie informative, grazie alle quali gruppi di interessi o privati proprietari “oppositori” vengono agevolati nella conoscenza e interpretazione dell’effettivo contenuto del piano adottato, con la possibilità di orientare e condizionare le scelte dall’esterno. Possibili misure • divulgazione e massima trasparenza e conoscibilità delle decisioni fondamentali contenute nel piano adottato, anche attraverso l’elaborazione di documenti di sintesi dei loro contenuti in linguaggio non tecnico e la predisposizione di punti informativi per i cittadini; • attenta verifica del rispetto degli obblighi di pubblicazione di cui al d.lgs. 33/2013 da parte del responsabile del procedimento; • previsione della esplicita attestazione di avvenuta pubblicazione dei provvedimenti e degli elaborati da allegare al provvedimento di approvazione. 2.4 Fase di approvazione del piano Possibili eventi rischiosi In questa fase, il principale rischio è che il piano adottato sia modificato con l’accoglimento di osservazioni che risultino in contrasto con gli interessi generali di tutela e razionale assetto del territorio cui è informato il piano stesso. Possibili misure • predeterminazione e pubblicizzazione dei criteri generali che saranno utilizzati in fase istruttoria per la valutazione delle osservazioni; • motivazione puntuale delle decisioni di accoglimento delle osservazioni che modificano il piano adottato, con particolare riferimento agli impatti sul contesto ambientale, paesaggistico e culturale; • monitoraggio sugli esiti dell’attività istruttoria delle osservazioni, al fine di verificare quali e quante proposte presentate dai privati siano state accolte e con quali motivazioni. 2.4.1 Concorso di regioni, province e città metropolitane al procedimento di approvazione In alcune leggi regionali è previsto che la regione, la provincia e la città metropolitana svolgano un’importante attività di concorso nel processo di approvazione dei piani comunali, finalizzata a garantire la coerenza tra i vari livelli di governo del territorio. Possibili eventi rischiosi Nell’esercizio di tale funzione possono individuarsi alcuni eventi rischiosi tra cui: • il decorso infruttuoso del termine di legge a disposizione degli enti per adottare le proprie determinazioni, al fine di favorire l’approvazione del piano senza modifiche; • l’istruttoria non approfondita del piano in esame da parte del responsabile del procedimento; • l’accoglimento delle controdeduzioni comunali alle proprie precedenti riserve sul piano, pur in carenza di adeguate motivazioni. Possibili misure Le principali misure di prevenzione possono fare leva sulla trasparenza degli atti, anche istruttori, al fine di rendere evidenti e conoscibili le scelte operate, nonchè sul rafforzamento delle misure di controllo attraverso il monitoraggio interno, anche a campione, dei tempi procedimentali e dei contenuti degli atti. Per quanto concerne la trasparenza, ad esempio, l’ente (regione, provincia o città metropolitana) cura la pubblicazione sintetica e comprensibile degli atti, anche istruttori al fine di rendere evidenti e conoscibili le scelte operate. 3. Processi di pianificazione attuativa La locuzione “piani attuativi” non indica una tipologia omogenea di strumenti pianificatori, bensi’ una pluralità di strumenti urbanistici di dettaglio, non ascrivibili ad uno schema unitario, configurando tipologie pianificatorie fra loro disomogenee. Inoltre, a tali strumenti esecutivi della pianificazione urbanistica comunale, si è aggiunta una ulteriore categoria dei c.d. “programmi complessi” (il prototipo dei quali è il programma integrato di intervento, introdotto dall’art. 16 della legge 17 febbraio 1992, n. 179 recante «Norme per l’edilizia residenziale pubblica») consistenti in programmi di intervento, finanziati con risorse pubbliche statali e regionali, che prevedono la realizzazione di opere di interesse pubblico e privato, per il recupero e la rigenerazione dei tessuti urbani esistenti. Tali programmi presentano il dettaglio urbanistico proprio dei piani attuativi e sono abilitati ad apportare varianti ai piani urbanistici generali. 3.1 Piani attuativi d’iniziativa privata I piani attuativi di iniziativa privata si caratterizzano per la presenza di un promotore privato, che predispone lo strumento urbanistico di esecuzione, sottoponendolo all’approvazione comunale, e con il quale viene stipulata una convenzione per la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria e per la cessione delle aree necessarie. Tali piani sono pertanto particolarmente esposti al rischio di indebite pressioni di interessi particolaristici. Possibili eventi rischiosi Nella fase di adozione del piano attuativo il principale evento rischioso è quello della mancata coerenza con il piano generale (e con la legge), che si traduce in uso improprio del suolo e delle risorse naturali. Un’efficace azione di contrasto dei fenomeni corruttivi presuppone che sia valorizzata l’efficacia prescrittiva del piano comunale generale, in ordine alla puntuale definizione degli obiettivi, dei requisiti e delle prestazioni che in fase attuativa degli interventi debbano essere realizzati. La chiarezza di tali indicazioni consente, infatti, di guidare in fase attuativa la verifica da parte delle strutture comunali del rispetto degli indici e parametri edificatori e degli standard urbanistici stabiliti dal piano generale, ma anche della traduzione grafica delle scelte urbanistiche riguardanti: la viabilità interna, l’ubicazione dei fabbricati, la sistemazione delle attrezzature pubbliche, l’estensione dei lotti da edificare, ecc. Possibili misure • incontri preliminari del responsabile del procedimento con gli uffici tecnici e i rappresentanti politici competenti, diretti a definire gli obiettivi generali in relazione alle proposte del soggetto attuatore; • linee guida interne, oggetto di pubblicazione, che disciplinino la procedura da seguire e introducano specifiche forme di trasparenza e rendicontazione (ad esempio, tramite check list di verifica degli adempimenti da porre in essere, inviata al RPCT ai fini di controllo); • costituzione di gruppi di lavoro interdisciplinare con personale dell’ente, ma appartenente a uffici diversi, i cui componenti siano chiamati a rendere una dichiarazione sull’assenza di conflitti di interesse; tale misura si rivela opportuna soprattutto per i piani di particolare incidenza urbanistica; • la predisposizione di un registro degli incontri con i soggetti attuatori, nel quale riportare le relative verbalizzazioni; • la richiesta della presentazione di un programma economico finanziario relativo sia alle trasformazioni edilizie che alle opere di urbanizzazione da realizzare, il quale consenta di verificare non soltanto la fattibilità dell’intero programma di interventi, ma anche l’adeguatezza degli oneri economici posti in capo agli operatori; • può poi risultare opportuno acquisire alcune informazioni dirette ad accertare il livello di affidabilità dei privati promotori (quali ad esempio il certificato della Camera di commercio, i bilanci depositati, le referenze bancarie, casellario giudiziale). Ulteriori eventi rischiosi Anche per i piani attuativi si pongono i rischi già esaminati per le fasi di pubblicazione, decisione delle osservazioni e approvazione dei piani urbanistici generali (§ 2), cui si rinvia anche in merito alle possibili misure di prevenzione, sottolineando anzi che nel caso dei piani esecutivi il livello di rischio deve essere considerato più elevato, a causa della più diretta vicinanza delle determinazioni di piano rispetto agli interessi economici e patrimoniali dei privati interessati. 3.2 Piani attuativi di iniziativa pubblica I piani attuativi di iniziativa pubblica presentano caratteristiche comuni con i piani sopradescritti, ma sono caratterizzati in genere da una minore pressione o condizionamento da parte dei privati. Tuttavia, particolare attenzione deve essere prestata ai piani in variante, qualora risultino in riduzione delle aree assoggettate a vincoli ablatori. 3.3 Convenzione urbanistica Fra gli atti predisposti nel corso del processo di pianificazione attuativa, lo schema di convenzione riveste un particolare rilievo, in quanto stabilisce gli impegni assunti dal privato per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione connesse all’intervento (ed in particolare: obbligo di realizzazione di tutte le opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria o di quelle che siano necessarie per allacciare la zona ai servizi pubblici; obbligo di cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria e per le attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale; nel caso in cui l’acquisizione di tali aree non risulti possibile o non sia ritenuta opportuna dal comune, corresponsione di una somma commisurata all’utilità economica conseguita per effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al costo dell’acquisizione di altre aree; congrue garanzie finanziarie per gli obblighi derivanti al privato per effetto della stipula della convenzione). Per quanto riguarda la completezza e l’adeguatezza dei contenuti della convenzione, può essere opportuno richiedere l’utilizzo di schemi di convenzione – tipo che assicurino una completa e organica regolazione degli aspetti sopra richiamati, eventualmente modificati e integrati alla luce della particolare disciplina prevista dalla pianificazione urbanistica comunale. A titolo meramente esemplificativo, si richiama il modello elaborato dall’Istituto per l’innovazione e trasparenza degli appalti e compatibilità ambientale (ITACA) del 7 novembre 2013. 3.3.1 Calcolo degli oneri L’incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria è stabilita con deliberazione del consiglio comunale. Il Testo Unico sull’edilizia dispone articolati e dettagliati criteri per il calcolo del contributo dovuto per il permesso di costruire, in modo tale che esso sia «commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonchè al costo di costruzione» (art. 16, co. 1, d.p.r. 380/2001). Il calcolo è effettuato in base a tabelle parametriche definite dalla regione di appartenenza, per classi di comuni in relazione a criteri omogenei. La disciplina regionale risulta nella materia piuttosto differenziata. Possibili eventi rischiosi Poichè non spetta al presente PNA definire discipline omogenee, semmai affidate a scelte delle regioni, si possono indicare misure da adottarsi a livello comunale. In tal senso, un primo, possibile, evento rischioso è connesso alla non corretta, non adeguata o non aggiornata commisurazione degli “oneri” dovuti, in difetto o in eccesso, rispetto all’intervento edilizio da realizzare, al fine di favorire eventuali soggetti interessati. Ciò può avvenire a causa di una erronea applicazione dei sistemi di calcolo, ovvero a causa di omissioni o errori nella valutazione dell’incidenza urbanistica dell’intervento e/o delle opere di urbanizzazione che lo stesso comporta. Possibili misure • attestazione del responsabile dell’ufficio comunale competente, da allegare alla convenzione, dell’avvenuto aggiornamento delle tabelle parametriche degli oneri e del fatto che la determinazione degli stessi è stata attuata sulla base dei valori in vigore alla data di stipula della convenzione; • pubblicazione delle tabelle a cura della regione e del comune, ove non sia già prevista per legge; • assegnazione della mansione del calcolo degli oneri dovuti a personale diverso da quello che cura l’istruttoria tecnica del piano attuativo e della convenzione. 3.3.2 Individuazione delle opere di urbanizzazione Altrettanto rilevante è la corretta individuazione delle opere di urbanizzazione necessarie e dei relativi costi, in quanto la sottostima/sovrastima delle stesse può comportare un danno patrimoniale per l’ente, venendo a falsare i contenuti della convenzione riferiti a tali valori (scomputo degli oneri dovuti, calcolo del contributo residuo da versare, ecc.). Possibili eventi rischiosi Possibili eventi rischiosi possono essere: l’individuazione di un’opera come prioritaria, laddove essa, invece, sia a beneficio esclusivo o prevalente dell’operatore privato; l’indicazione di costi di realizzazione superiori a quelli che l’amministrazione sosterebbe con l’esecuzione diretta. Possibili misure • identificazione delle opere di urbanizzazione mediante il coinvolgimento del responsabile della programmazione delle opere pubbliche, che esprime un parere, in particolare, circa l’assenza di altri interventi prioritari realizzabili a scomputo, rispetto a quelli proposti dall’operatore privato nonchè sul livello qualitativo adeguato al contesto d’intervento, consentendo cosi’ una valutazione più coerente alle effettive esigenze pubbliche; • previsione di una specifica motivazione in merito alla necessità di far realizzare direttamente al privato costruttore le opere di urbanizzazione secondaria; • calcolo del valore delle opere da scomputare utilizzando i prezziari regionali o dell’ente, anche tenendo conto dei prezzi che l’amministrazione ottiene solitamente in esito a procedure di appalto per la realizzazione di opere analoghe; • richiesta per tutte le opere per cui è ammesso lo scomputo del progetto di fattibilità tecnica ed economica delle opere di urbanizzazione, previsto dall’art. 1, co. 2, lett. e) del d.lgs. 50/2016, da porre a base di gara per l’affidamento delle stesse, e prevedere che la relativa istruttoria sia svolta da personale in possesso di specifiche competenze in relazione alla natura delle opere da eseguire, appartenente ad altri servizi dell’ente ovvero utilizzando personale di altri enti locali mediante accordo o convenzione; • previsione di garanzie aventi caratteristiche analoghe a quelle richieste in caso di appalto di opere pubbliche, ferma restando la possibilità di adeguare tali garanzie, anche tenendo conto dei costi indicizzati, in relazione ai tempi di realizzazione degli interventi. 3.3.3 Cessione delle aree necessarie per opere di urbanizzazione primaria e secondaria Anche le valutazioni compiute dall’amministrazione ai fini dell’acquisizione delle aree sono connotate da una forte discrezionalità tecnica. La cessione gratuita delle aree per standard è determinata con riferimento alle previsioni normative e al progetto urbano delineato dal piano, e deve essere coerente con le soluzioni progettuali contenute negli strumenti urbanistici esecutivi o negli interventi edilizi diretti convenzionati, mentre tempi e modalità della cessione sono stabiliti nella convenzione. Possibili eventi rischiosi I possibili eventi rischiosi consistono dunque: nell’errata determinazione della quantità di aree da cedere (inferiore a quella dovuta ai sensi della legge o degli strumenti urbanistici sovraordinati); nell’individuazione di aree da cedere di minor pregio o di poco interesse per la collettività, con sacrificio dell’interesse pubblico a disporre di aree di pregio per servizi, quali verde o parcheggi; nell’acquisizione di aree gravate da oneri di bonifica anche rilevanti. Possibili misure • individuazione di un responsabile dell’acquisizione delle aree, che curi la corretta quantificazione e individuazione delle aree, contestualmente alla stipula della convenzione, e che richieda, ove ritenuto indispensabile, un piano di caratterizzazione nella previsione di specifiche garanzie in ordine a eventuali oneri di bonifica; • monitoraggio da parte dell’amministrazione comunale sui tempi e gli adempimenti connessi alla acquisizione gratuita delle aree. 3.3.4 Monetizzazione delle aree a standard In conformità alla legislazione regionale vigente, la pianificazione urbanistica può prevedere il versamento al comune di un importo alternativo alla cessione diretta delle aree, qualora l’acquisizione non risulti possibile o non sia ritenuta opportuna, in relazione alla estensione delle aree, alla loro conformazione o localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di intervento. Possibili eventi rischiosi Tale valutazione appartiene alla discrezionalità tecnica degli uffici competenti e può essere causa di eventi rischiosi, non solo comportando minori entrate per le finanze comunali, ma anche determinando una elusione dei corretti rapporti tra spazi destinati agli insediamenti residenziali o produttivi e spazi a destinazione pubblica, con sacrificio dell’interesse generale a disporre di servizi – quali aree a verde o parcheggi – in aree di pregio. Possibili misure • adozione di criteri generali per la individuazione dei casi specifici in cui procedere alle monetizzazioni e per la definizione dei valori da attribuire alle aree, da aggiornare annualmente; • previsione per le monetizzazioni di importo significativo di forme di verifica attraverso un organismo collegiale, composto da soggetti che non hanno curato l’istruttoria, compresi tecnici provenienti da altre amministrazioni, quale ad esempio l’Agenzia delle entrate; • previsione del pagamento delle monetizzazioni contestuale alla stipula della convenzione, al fine di evitare il mancato o ritardato introito, e, in caso di rateizzazione, richiesta in convenzione di idonee garanzie. 3.4 Approvazione del piano attuativo Possibili eventi rischiosi Anche nel corso del processo di approvazione del piano attuativo, sono riscontrabili gli eventi rischiosi (legati alla scarsa trasparenza e conoscibilità dei contenuti del piano, alla mancata o non adeguata valutazione delle osservazioni pervenute, dovuta a indebiti condizionamenti dei privati interessati, al non adeguato esercizio della funzione di verifica dell’ente sovraordinato) che sono stati esaminati, con riferimento al piano generale, al precedente § 2. Possibili misure Anche per le possibili misure preventive si rinvia alle indicazioni fornite nel suddetto paragrafo. 3.5 Esecuzione delle opere di urbanizzazione Possibili eventi rischiosi La fase dell’esecuzione da parte degli operatori privati delle opere di urbanizzazione presenta rischi analoghi a quelli previsti per l’esecuzione di lavori pubblici e alcuni rischi specifici, laddove l’amministrazione non eserciti i propri compiti di vigilanza al fine di evitare la realizzazione di opere qualitativamente di minor pregio rispetto a quanto dedotto in obbligazione. Le carenze nell’espletamento di tale importante attività comportano un danno sia per l’ente, che sarà costretto a sostenere più elevati oneri di manutenzione o per la riparazione di vizi e difetti delle opere, sia per la collettività e per gli stessi acquirenti degli immobili privati realizzati che saranno privi di servizi essenziali ai fini dell’agibilità degli stessi. Altro rischio tipico è costituito dal mancato rispetto delle norme sulla scelta del soggetto che deve realizzare le opere. Possibili misure • costituzione di un’apposita struttura interna, composta da dipendenti di uffici tecnici con competenze adeguate alla natura delle opere, e che non siano in rapporto di contiguità con il privato, che verifichi puntualmente la correttezza dell’esecuzione delle opere previste in convenzione. Tale compito di vigilanza deve comprendere anche l’accertamento della qualificazione delle imprese utilizzate, qualora l’esecuzione delle opere sia affidata direttamente al privato titolare del permesso di costruire, in conformità alla vigente disciplina in materia (cfr. d.lgs. 50/2016, artt.1, co. 2, lettera e) e 36, co. 3 e 4, ove è fatta salva la disposizione di cui all’art. 16, co. 2-bis, del Testo Unico sull’edilizia); • comunicazione, a carico del soggetto attuatore, delle imprese utilizzate, anche nel caso di opere per la cui realizzazione la scelta del contraente non è vincolata da procedimenti previsti dalla legge; • verifica, secondo tempi programmati, del cronoprogramma e dello stato di avanzamento dei lavori, per assicurare l’esecuzione dei lavori nei tempi e modi stabiliti nella convenzione; • particolare rilievo riveste la previsione che la nomina del collaudatore sia effettuata dal comune, con oneri a carico del privato attuatore, dovendo essere assicurata la terzietà del soggetto incaricato; • previsione in convenzione, in caso di ritardata o mancata esecuzione delle opere, di apposite misure sanzionatorie quali il divieto del rilascio del titolo abilitativo per le parti d’intervento non ancora attuate. 4. Permessi di costruire convenzionati Il decreto legge 12 settembre 2014, n. 133 (c.d. “Sblocca Italia”) ha introdotto nel Testo Unico sull’edilizia il permesso di costruire convenzionato, che può essere rilasciato «qualora le esigenze di urbanizzazione possano essere soddisfatte con una modalità semplificata» (art. 28-bis del d.p.r. 380/2001). Detto istituto è caratterizzato dal fatto che il rilascio del titolo edilizio è preceduto dalla stipula di una convenzione urbanistica. Possibili eventi rischiosi Si osserva, di conseguenza, che gli eventi rischiosi sono analoghi a quelli indicati per la convenzione urbanistica conseguente agli atti di pianificazione attuativa (per quanto riguarda: la stipula della convenzione; la coerenza della convenzione con i contenuti del piano urbanistico di riferimento; la definizione degli oneri da versare; la cessione di aree o la monetizzazione, l’individuazione delle opere a scomputo da realizzare e la vigilanza sulla loro esecuzione). Possibili misure Per l’analisi di questi processi e per le relative misure di prevenzione si fa quindi riferimento a quanto indicato nel precedente § 3. 5. Il processo attinente al rilascio o al controllo dei titoli abilitativi edilizi L’attività amministrativa attinente al rilascio o alla presentazione dei titoli abilitativi edilizi e ai relativi controlli, salvo diversa disciplina regionale, è regolata dal d.p.r. 380/2001. In particolare: – l’attività edilizia libera, la comunicazione inizio lavori (di seguito CIL) e la comunicazione inizio lavori asseverata (di seguito CILA) sono disciplinati dall’art. 6; – il permesso di costruire è disciplinato dagli artt. 10-15 e 20; – la segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) dagli artt. 22-23-bis; – il contributo di costruzione dagli artt. 16-19. Il processo che presiede al rilascio dei titoli abilitativi edilizi o al controllo di quelli presentati dai privati è caratterizzato dalla elevata specializzazione delle strutture competenti e complessità della normativa da applicare. Tradizionalmente le funzioni edilizie sono svolte infatti da un ufficio speciale, oggi denominato Sportello unico per l’edilizia (SUE) – e Sportello unico per le attività produttive (SUAP) – chiamati ad applicare una disciplina che attiene non soltanto alla normativa urbanistica ed edilizia di carattere locale, ma anche alla normativa tecnica sui requisiti delle opere, ai limiti e condizioni alle trasformazioni del territorio, etc. Tali peculiarità comportano che il personale dotato di adeguate competenze si formi in un lungo periodo di tempo e l’amministrazione comunale sia portata a mantenerlo stabilmente assegnato a tali compiti. Inoltre, si evidenzia che il procedimento per il rilascio del permesso di costruire e la verifica delle istanze presentate dai privati in relazione a SCIA, CIL e CILA sono considerati espressione di attività vincolata, in quanto in presenza dei requisiti e presupposti richiesti dalla legge non sussistono margini di discrezionalità, nè circa l’ammissibilità dell’intervento, nè sui contenuti progettuali dello stesso. Nondimeno, l’ampiezza e la complessità della normativa da applicare è tale da indurre a considerare l’attività edilizia un’area di rischio specifico. In generale, un contributo positivo di significativa trasparenza dei processi valutativi degli interventi edilizi, e dunque di prevenzione del rischio, è offerto dalla modulistica edilizia unificata approvata in attuazione della c.d. Agenda per la semplificazione. Tale modulistica, infatti, richiedendo un’analitica disamina delle caratteristiche del progetto, delle normative tecniche e delle discipline vincolistiche da applicare, da una parte ha ridotto significativamente le incertezze normative insite nella materia; dall’altra, consente di ricostruire in modo analitico sia i contenuti delle asseverazioni del committente e del professionista abilitato, sia l’oggetto della valutazione delle strutture comunali. Ciò nonostante ogni intervento edilizio presenta elementi di specificità e peculiarità che richiedono una complessa ricostruzione della disciplina del caso concreto, con un processo decisionale che può quindi essere oggetto di condizionamenti, parziali interpretazioni e applicazioni normative. Inoltre, a differenza dei processi di pianificazione urbanistica, in questa area non sono previste adeguate forme di pubblicità del processo decisionale, bensi’ solo la possibilità per i soggetti interessati di prendere conoscenza dei titoli abilitativi presentati o rilasciati, a conclusione del procedimento abilitativo. Sotto il profilo della complessità e rilevanza dei processi interpretativi, non sussistono differenze significative tra i diversi tipi di titoli abilitativi edilizi: l’uno, il permesso di costruire, richiede il rilascio di un provvedimento abilitativo (suscettibile di silenzio assenso); l’altro, la SCIA presuppone comunque un obbligo generale dell’amministrazione comunale di provvedere al controllo della pratica. Ma in entrambi i casi è necessaria una attività istruttoria che porti all’accertamento della sussistenza dei requisiti e presupposti previsti dalla legge per l’intervento ipotizzato. 5.1 Assegnazione delle pratiche per l’istruttoria Possibili eventi rischiosi In questa fase il principale evento rischioso consiste nella assegnazione a tecnici in rapporto di contiguità con professionisti o aventi titolo al fine di orientare le decisioni edilizie. Nelle difficoltà di attuare misure di rotazione, a causa della specializzazione richiesta ai funzionari assegnati a queste funzioni, tale evento può essere prevenuto, ove possibile, con la informatizzazione delle procedure di protocollazione e assegnazione automatica delle pratiche ai diversi responsabili del procedimento. Sotto questo profilo è utile mantenere la tracciabilità delle modifiche alle assegnazioni delle pratiche e monitorare i casi in cui tali modifiche avvengono. Quanto all’attività istruttoria e agli esiti della stessa, emerge il rischio di un potenziale condizionamento esterno nella gestione dell’istruttoria che può essere favorito dall’esercizio di attività professionali esterne svolte da dipendenti degli uffici, in collaborazione con professionisti del territorio nel quale svolgono tale attività. Possibili misure Misure preventive da porre in essere possono far leva su doveri di comportamento, introdotti nei codici di comportamento di amministrazione, consistenti nel divieto di svolgere attività esterne, se non al di fuori dell’ambito territoriale di competenza, nelle specifiche attività di controllo da parte dei competenti nuclei ispettivi, nell’obbligo di dichiarare ogni situazione di potenziale conflitto di interessi, ma anche su percorsi di formazione professionale che approfondiscano le competenze del funzionario e rafforzino la sua capacità di autonome e specifiche valutazioni circa la disciplina da applicare nel caso concreto. 5.2 Richiesta di integrazioni documentali Possibili eventi rischiosi Anche la fase di richiesta di integrazioni documentali e di chiarimenti istruttori può essere l’occasione di pressioni, al fine di ottenere vantaggi indebiti. Le misure possibili attengono al controllo a campione di tali richieste, monitorando eventuali eccessive frequenze di tali comportamenti, al fine di accertare anomalie. Sia in caso di permesso di costruire (cui si applica il meccanismo del silenzio assenso) che di SCIA (per la quale è stabilito un termine perentorio per lo svolgimento dei controlli), la mancata conclusione dell’attività istruttoria entro i tempi massimi stabiliti dalla legge (e la conseguente non assunzione di provvedimenti sfavorevoli agli interessati) deve essere considerata un evento rischioso. Possibili misure La sua prevenzione generale si incentra su misure organizzative atte a garantire un adeguato numero di risorse umane impegnate in questa attività o, nel caso di insuperabile carenza di personale, nella fissazione di una quota ragionevole di controlli da effettuare e nella definizione di criteri oggettivi per la individuazione del campione. Rispetto ai casi di non conclusione formale dell’istruttoria, pur in presenza di dette misure organizzative, è immaginabile lo svolgimento di un monitoraggio delle cause del ritardo e una verifica di quelle pratiche che, in astratto, non presentano oggettiva complessità. 5.3 Calcolo del contributo di costruzione Le amministrazioni devono porre attenzione al calcolo del contributo di costruzione da corrispondere, alla corretta applicazione delle modalità di rateizzazione dello stesso e all’applicazione delle eventuali sanzioni per il ritardo. Possibili eventi rischiosi Gli eventi rischiosi ad esso riferibili sono: l’errato calcolo del contributo, il riconoscimento di una rateizzazione al di fuori dei casi previsti dal regolamento comunale o comunque con modalità più favorevoli e la non applicazione delle sanzioni per il ritardo. Possibili misure Anche in questo caso il primo fattore di riduzione del rischio è la chiarezza dei meccanismi di calcolo del contributo, della rateizzazione e della sanzione e l’adozione di procedure telematiche che favoriscano una gestione automatizzata del processo. In subordine, una efficace prevenzione del rischio può essere attuata assegnando tali mansioni a personale diverso da coloro che hanno curato l’istruttoria tecnica della pratica edilizia. Inoltre può essere utile un sistema di verifica di report che segnalino gli evidenti scostamenti delle somme quantificate, a parità delle dimensioni complessive dell’opera, o anomalie dello scadenziario. 5.4 Controllo dei titoli rilasciati Possibili eventi rischiosi In merito al controllo dei titoli rilasciati possono configurarsi rischi di omissioni o ritardi nello svolgimento di tale attività; inoltre può risultare carente la definizione di criteri per la selezione del campione delle pratiche soggette a controllo. Possibili misure In tutti i casi nei quali i controlli sono attuati a campione, la principale misura di prevenzione del rischio appare la puntuale regolamentazione dei casi e delle modalità di individuazione degli interventi da assoggettare a verifica (per esempio con sorteggio in data fissa, utilizzando un estrattore di numeri verificabili nel tempo, dando alle pratiche presentate un peso differente in ragione della rilevanza o della problematicità dell’intervento). Una misura generale di verifica della corretta applicazione della normativa che incide sulla attività edilizia può essere costituita da controlli su tutte le pratiche che abbiano interessato un determinato ambito urbanistico di particolare rilevanza, una determinata area soggetta a vincoli, ecc., per verificare se tutti gli interventi edilizi abbiano dato applicazione alla relativa normativa in modo omogeneo. 6. Vigilanza L’attività di vigilanza costituisce un processo complesso volto all’individuazione degli illeciti edilizi, all’esercizio del potere sanzionatorio, repressivo e ripristinatorio, ma anche alla sanatoria degli abusi attraverso il procedimento di accertamento di conformità. Quest’attività è connotata da un’ampia discrezionalità tecnica e, come tale, è suscettibile di condizionamenti e pressioni esterne, anche in relazione ai rilevanti valori patrimoniali in gioco e alla natura reale della sanzione ripristinatoria. Possibili eventi rischiosi Gli eventi rischiosi consistono, innanzitutto, nella omissione o nel parziale esercizio dell’attività di verifica dell’attività edilizia in corso nel territorio. Altro evento rischioso può essere individuato nell’applicazione della sanzione pecuniaria, in luogo dell’ordine di ripristino, che richiede una attività particolarmente complessa, dal punto di vista tecnico, di accertamento dell’impossibilità di procedere alla demolizione dell’intervento abusivo senza pregiudizio per le opere eseguite legittimamente in conformità al titolo edilizio. Una particolare attenzione si deve avere per i processi di vigilanza e controllo delle attività edilizie (minori) non soggette a titolo abilitativo edilizio, bensi’ totalmente liberalizzate o soggette a comunicazione di inizio lavori (CIL) da parte del privato interessato o a CIL asseverata da un professionista abilitato. Tali interventi, infatti, pur essendo comunque tenuti al rispetto della disciplina che incide sull’attività edilizia, sono sottratti alle ordinarie procedure di controllo e sottoposti alla generale funzione comunale di vigilanza sull’attività edilizia, il cui esercizio e le cui modalità di svolgimento di norma non sono soggetti a criteri rigorosi e verificabili. Possibili misure Quali misure generali di prevenzione, le amministrazioni comunali possono predisporre accurati sistemi di valutazione della performance individuale e organizzativa delle strutture preposte alla vigilanza, prevedendo obiettivi ed indicatori di attività che consentano di monitorare l’esercizio di tali compiti, anche in ordine agli esiti delle segnalazioni ricevute. Inoltre è opportuno assegnare le funzioni di vigilanza a soggetti diversi da quelli che, per l’esercizio delle funzioni istruttorie delle pratiche edilizie, hanno relazione continuative con i professionisti (e quindi con i direttori dei lavori). Al fine di assicurare la corretta applicazione delle sanzioni pecuniarie possono essere individuate le seguenti misure specifiche: • forme collegiali per l’esercizio di attività di accertamento complesse, con il ricorso a tecnici esterni agli uffici che esercitano la vigilanza, in particolare per la valutazione della impossibilità della restituzione in pristino; • la definizione analitica dei criteri e modalità di calcolo delle sanzioni amministrative pecuniarie (comprensivi dei metodi per la determinazione dell’aumento di valore venale dell’immobile conseguente alla realizzazione delle opere abusive e del danno arrecato o del profitto conseguito, ai fini dell’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria prevista per gli interventi abusivi realizzati su aree sottoposte a vincolo paesaggistico) e delle somme da corrispondere a titolo di oblazione, in caso di sanatoria; • verifiche, anche a campione, del calcolo delle sanzioni, con riferimento a tutte le fasce di importo. Al fine di prevenire i rischi di mancata ingiunzione a demolire l’opera abusiva o di omessa acquisizione gratuita al patrimonio comunale di quanto costruito, a seguito del mancato adempimento dell’ordine di demolire possono essere introdotte le seguenti misure: • l’istituzione di un registro degli abusi accertati, che consenta la tracciabilità di tutte le fasi del procedimento, compreso l’eventuale processo di sanatoria; • la pubblicazione sul sito del comune di tutti gli interventi oggetto di ordine di demolizione o ripristino e dello stato di attuazione degli stessi, nel rispetto della normativa sulla tutela della riservatezza; • il monitoraggio dei tempi del procedimento sanzionatorio, comprensivo delle attività esecutive dei provvedimenti finali. VII – SANITÀ Introduzione Il presente approfondimento è stato redatto tenendo conto del lavoro degli appositi tavoli tematici ANAC, Ministero della salute e AGENAS. Le indicazioni specifiche qui fornite, da leggere a integrazione di quelle contenute nell’Aggiornamento 2015 al PNA che si intendono recepite anche con riferimento agli ambiti non specificamente trattati ( § 1.5, § 2.1.3, § 2.1.4, § 2.2.3, § 2.2.4), rappresentano un insieme di misure, in costante evoluzione, affinamento e miglioramento, concretamente attuabili con gli opportuni adattamenti di contesto e con gli strumenti disponibili, che hanno lo scopo di favorire una maggiore capacità di contrasto da parte delle istituzioni sanitarie dei fenomeni corruttivi nel breve/medio periodo. In particolare, le misure indicate costituiscono possibili soluzioni organizzative per preservare il Servizio Sanitario Nazionale (di seguito SSN) dal rischio di eventi corruttivi (con specifico riferimento al contesto strutturale, sociale ed economico in cui si collocano ed operano le istituzioni medesime) e per innalzare il livello globale di integrità, di competenza e di produttività del sistema sanitario nazionale a partire dall’aumento dell’efficacia e dell’efficienza delle singole unità operative in cui si articola. Per realizzare questi obiettivi, il presente approfondimento rivolto alle regioni e alle organizzazioni sanitarie aziendali, presenta un quadro di interventi tra loro correlati la cui realizzazione richiede necessariamente un forte investimento formativo, soprattutto sugli RPCT e, a cascata, su tutti coloro che intervengono nei processi di costruzione ed attuazione delle azioni dei PTPC. Ciò affinchè tutti i soggetti siano in grado di utilizzare al meglio le misure e le indicazioni contenute nel PNA per realizzare il livello di equilibrio ottimale fra i due pilastri: la realizzazione piena delle finalità istituzionali di un’azienda sanitaria, da cui dipende il livello di salute di una popolazione, e il contrasto ai tentativi e/o ai fatti corruttivi che si oppongono o ne ostacolano il perseguimento. Ruolo del responsabile della prevenzione della corruzione Premessa Il RPCT rappresenta uno dei soggetti fondamentali per l’attuazione della normativa sulla prevenzione della corruzione e della trasparenza (21). In considerazione della natura dei soggetti destinatari del PNA – sezione II Sanità – e delle peculiarità delle organizzazioni sanitarie nell’ambito del sistema-aziende che operano all’interno del SSN, è necessario che le indicazioni fornite nella parte generale al § 5.2. siano quanto più possibile contestualizzate, sia nella scelta da parte dell’organo nominante (Direttore Generale), sia nella configurazione degli strumenti di supporto nell’ambito dell’organizzazione sanitaria, funzionali alla migliore gestione di tutti i processi interni alla stessa. In coerenza, infatti, con le indicazioni della parte generale, il ruolo e le funzioni del RPCT non possono prescindere, ancor più in un’organizzazione sanitaria e di alta complessità, dalle funzioni strategiche di pianificazione, di vigilanza, di monitoraggio e di controllo proprie dell’organizzazione stessa e devono essere integrate ed interconnesse con esse. Nel presente approfondimento sono contenute indicazioni specifiche al fine di uniformare, per gli aspetti di comune applicabilità, i criteri di scelta delle aziende e degli enti del SSN, del profilo cui attribuire la funzione di RPCT. 1. Ambito soggettivo I soggetti cui si rivolge l’approfondimento sono i medesimi contenuti al punto 1.2 dell’approfondimento sezione II Sanità dell’Aggiornamento 2015 al PNA (22). 1.1 Altri soggetti non di diritto pubblico: gli ospedali classificati e altri soggetti accreditati con il SSN Per gli enti non di diritto pubblico accreditati con il SSN si raccomanda alle amministrazioni di riferimento di promuovere l’adozione di strumenti per il rafforzamento della trasparenza e per la prevenzione della corruzione e del conflitto di interessi, alla luce delle indicazioni operative contenute anche nel presente approfondimento. Particolare riguardo va riservato ai c.d. ospedali classificati o equiparati (23) in ragione della peculiarità di questi enti la cui natura giuridica – amministrativa non ne consente la riconducibilità netta al settore pubblico o al privato. La normativa di settore (24) a oggi invariata ha, di fatto, determinato, con riferimento a tali enti, una nuova fattispecie giuridica legata ad una personalità di natura privata delle strutture ecclesiastiche classificate ed equiparate, coesistente con la erogazione di un servizio ospedaliero sottoposto alle stesse regole generali del settore pubblico. È ragionevole, quanto opportuno, quindi, estendere anche a tali enti le medesime indicazioni contenute nel presente approfondimento, per quanto applicabili, dandone opportuna evidenza in ognuno degli specifici accordi contrattuali. Qualora le aziende sanitarie e gli altri soggetti di cui al presente paragrafo controllino o partecipino in società o altri enti di diritto privato, questi ultimi, in analogia agli altri soggetti sopra menzionati, sono tenuti ad assicurare l’applicazione della normativa di prevenzione della corruzione e di promozione della trasparenza (25), anche ai fini dell’individuazione e nomina della figura del RPCT. 2. Conoscenze e competenze generali e comuni del RPCT in ambito sanitario e requisiti soggettivi L’approfondimento sezione II Sanità dell’Aggiornamento 2015 al PNA contiene già indicazioni sui requisiti soggettivi dei RPCT, prevedendo che «Fermo restando quanto già indicato nella parte generale, il profilo del professionista al quale attribuire l’incarico di RPC è opportuno abbia specifiche competenze in tema di conoscenza dell’organizzazione e gestione della struttura sanitaria, dei processi e delle relazioni in essa esistenti». Nella definizione del profilo del RPCT è necessario tenere conto degli aspetti che connotano la funzione che deve esercitare tale figura che possono essere ricompresi prevalentemente in due ambiti: “preventivo” e di “vigilanza”. In riferimento al primo ambito, il RPCT è chiamato ad elaborare il PTPC che costituisce l’espressione delle conoscenze specifiche e contingenti in possesso del RPCT e della sua capacità di utilizzare esperienze e competenze presenti all’interno e all’esterno della struttura in cui opera. In merito al secondo aspetto, quello della vigilanza, il RPCT è chiamato a vigilare sul rispetto di quanto previsto dal Piano, a elaborare nuove misure e strategie preventive e a segnalare criticità e/o specifici fatti corruttivi o di cattiva gestione. Il prevalere di un aspetto o dell’altro, ovvero il livello di equilibrio fra questi due ambiti, rilevano nell’identificazione del profilo del RPCT. Poste le caratteristiche comuni della funzione del RPCT e del profilo dirigenziale cui deve rispondere tale figura, il RPCT delle aziende sanitarie e degli enti assimilati del SSN assume, anche alla luce della sezione II Sanità dell’Aggiornamento 2015 al PNA, un ruolo pregnante all’interno dell’organizzazione sanitaria che richiede, in quanto tale, una sempre più specifica conoscenza del settore sotto tutti gli aspetti, organizzativo, gestionale e sanitario. Al fine di contestualizzare tale profilo nell’ambito dell’organizzazione sanitaria, occorre, con maggior livello di dettaglio: – definire il profilo e le competenze del RPCT delle aziende sanitarie e degli enti del SSN; – esplicitare il sistema di relazioni/collegamenti del RPCT con riferimento ai rapporti con i vertici aziendali e con i responsabili delle varie articolazioni aziendali; – esplicitare gli strumenti a supporto del RPCT (ad esempio referenti e/o struttura organizzativa in relazione al livello di complessità dell’organizzazione aziendale). Sulla base delle suddette considerazioni si possono distinguere in capo al RPCT due diversi aspetti: profili di competenza e aspetti organizzativi. 2.1 Profili di competenza Le caratteristiche conoscitive principali del RPCT devono essere: – conoscenza dell’organizzazione sanitaria (ospedaliera/territoriale) e dei diversi processi che costituiscono gli elementi fondamentali per la produzione di servizi sanitari; – conoscenza dei processi amministrativi e gestionali; – capacità di valutare il contesto in cui opera un’azienda sanitaria e gli snodi importanti di funzionamento della macchina assistenziale ed amministrativa sulla base anche della conoscenza intersettoriale dell’azienda sanitaria e della rete di relazioni interne ed esterne della stessa in ambito locale, regionale ed extra regionale; – conoscenza degli strumenti di programmazione aziendale e del sistema di valutazione delle performance per le necessarie interconnessioni tra questi e il PTPC. 2.2 Aspetti organizzativi Posto che il RPCT negli enti del servizio sanitario debba almeno occupare una posizione dirigenziale di struttura complessa o a valenza dipartimentale (UOC, UOD, Dipartimento/Distretto/Presidio, ecc.) e che la funzione di RPCT è aggiuntiva rispetto alla funzione e al ruolo del dirigente già ricoperti all’interno dell’organizzazione, a invarianza di risorse economiche, è importante nell’individuazione della figura più adeguata al ruolo di RPCT, tenere conto della tipologia di struttura organizzativa diretta e del livello di integrabilità/compatibilità delle relative funzioni ed attività con quelle aggiuntive del ruolo di RPCT. 3. Criteri di esclusione La normativa vigente prevede che il RPCT sia un dirigente stabile dell’amministrazione, con una adeguata conoscenza della sua organizzazione e del suo funzionamento, dotato della necessaria imparzialità ed autonomia valutativa e scelto, di norma, tra i dirigenti non assegnati ad uffici che svolgano attività di gestione e di amministrazione attiva. Nel contesto delle organizzazioni sanitarie, l’applicazione delle richiamate disposizioni normative e delle indicazioni già fornite da questa Autorità, induce ad escludere, ai fini della scelta e della conseguente nomina del RPCT, le fattispecie di seguito elencate a titolo indicativo e non esaustivo: – direttore generale; – dirigente (sia di area sanitaria che amministrativa) di struttura semplice; – dirigente responsabile del settore gare e appalti; – dirigente responsabile dell’ufficio procedimenti disciplinari; – dirigente esterno con contratto di collaborazione/consulenza e/o altro tipo di rapporti a tempo determinato. Rispetto ai suddetti criteri di esclusione, eventuali scelte residuali dovranno, in ogni caso, essere adeguatamente motivate, avuto riguardo delle indicazioni di cui al presente approfondimento e a quelle della parte generale, in coerenza con la cornice normativa vigente per l’ambito di riferimento. Resta salva la possibilità di salvaguardare le professionalità che hanno svolto l’incarico per almeno un triennio, previa adeguata motivazione circa l’assenza di altre figure compatibili con le indicazioni già fornite nel PNA. In ogni caso, per tutte le fattispecie non esplicitamente annoverate tra quelle escludenti la nomina a RPCT, resta intesa la presupposta condizione di assoluta integrità del soggetto da nominare, che, di norma, non deve essere stato sottoposto a procedimenti disciplinari. 4. Criteri di scelta Se gli aspetti che prevalgono nella scelta sono quelli “di competenza”, le aziende sanitarie e gli enti assimilati avranno cura di valorizzare l’organizzazione funzionale di supporto al RPCT di cui al successivo § 6. Qualora, invece, gli aspetti che prevalgono siano quelli “organizzativi”, è opportuno prendere a riferimento strutture organizzative che, per funzioni strategiche proprie, oltre a presupporre la conoscenza dei processi organizzativi e gestionali interni all’azienda, già si caratterizzano per un elevato livello di integrazione con gli altri livelli di responsabilità aziendali. Rispondono a quest’ultimo caso, e sono da intendersi quali profili elettivi, figure come il responsabile del controllo di gestione, il responsabile del settore affari legali/affari generali, il risk manager, il direttore medico di presidio, il dirigente amministrativo di presidio, il direttore di distretto, il direttore di dipartimento, il cui ruolo e funzioni si caratterizzano per essere trasversali rispetto all’organizzazione aziendale e che, pertanto, devono interagire necessariamente con la direzione strategica. Transitoriamente, e in via eccezionale, è fatta salva la possibilità di attribuire l’incarico di RPCT ai dirigenti di struttura semplice o ai titolari di incarichi di alta professionalità che abbiano già svolto l’incarico di RPCT per almeno un triennio, previa adeguata motivazione circa l’assenza di condizioni per poter attribuire l’incarico agli altri soggetti sopra indicati. 5. Fattori di rischio/criticità In questa sezione rientrano tutti quegli elementi che possono influenzare, positivamente o negativamente, l’azione del RPCT. In particolare, si segnalano: – il livello di integrità del soggetto cui affidare l’incarico di RPCT; – il livello di legittimazione/autorevolezza del soggetto all’interno dell’organizzazione e nelle relazioni con gli altri livelli di responsabilità aziendali; – il grado di “dipendenza” del soggetto e del suo percorso di carriera da persone che operano all’interno dell’azienda (o che ne possono influenzare gli orientamenti dall’esterno); – l’appartenenza a specifiche “comunità” (ad es. associazioni o altro); – la mancanza di prospettive di realizzazione di azioni che possono richiedere tempi operativi medio/lunghi (rotazioni troppo brevi possono disincentivare l’attività di un RPCT); – la necessità di rientro nel precedente percorso di carriera e quindi la convivenza nell’ambiente con ruoli diversi, ecc.; – ulteriori eventuali fattori di “rischio” soggettivi evincibili ad es. dalla dichiarazione pubblica di interessi di cui alla modulistica standard resa disponibile in applicazione della specifica previsione contenuta nella determinazione ANAC n. 12/2015 – sezione II – Sanità. 6. Struttura di supporto Per quanto concerne, in particolare, gli strumenti a supporto del RPCT si rinvia a quanto illustrato nella parte generale (cfr.§ 5.2.), in coerenza con le indicazioni fornite dal legislatore nel d.lgs. 97/2016. All’atto della nomina, specie laddove nella scelta i profili di competenza prevalgano sugli aspetti organizzativi, è opportuno esplicitare i collegamenti e le strutture/figure di supporto al RPCT che consentano, da un lato, un efficace espletamento dei compiti di quest’ultimo e, dall’altro, la necessaria partecipazione dei responsabili degli uffici a tutte le fasi di predisposizione e di attuazione del PTPC, nonchè la piena condivisione degli obiettivi e la più ampia partecipazione di tutti i dipendenti. 7. Durata dell’incarico La durata dell’incarico del RPCT deve essere fissata tenendo conto della non esclusività della funzione, che, al contrario, viene assegnata a titolari di incarichi dirigenziali di struttura complessa e/o valenza dipartimentale già ricoperti all’interno dell’organizzazione. Al riguardo si rinvia alla parte generale. Le predette indicazioni sono connesse alla salvaguardia della necessaria “indipendenza” delle funzione del RPCT rispetto anche ad eventuali potenziali condizionamenti connessi ai fattori di rischio evidenziati al precedente § 5. Il RPCT deve, infatti, essere una figura di garanzia per l’istituzione sanitaria e non un incarico di natura fiduciaria. Di ciò deve tenersi conto anche nella determinazione della durata dell’incarico, non correlata a quella del contratto del Direttore Generale. 8. Formazione La centralità della formazione (26) e il ruolo strategico che essa assume nella qualificazione e nel mantenimento delle competenze, sono affermati, come richiamato nella nota sottostante, già nella l. 190/2012. Ferma restando la responsabilizzazione delle amministrazioni e degli enti sulla scelta dei soggetti da formare e su cui investire prioritariamente e la trasversalità della formazione all’interno dell’organizzazione per tutti i soggetti che, seppur con approcci differenziati, partecipano, a vario titolo, alla formazione ed attuazione delle misure di prevenzione, la figura del RPCT e le figure di supporto (referenti, organi di indirizzo, titolari di uffici e di funzioni strategiche, ecc.) sono da considerarsi destinatari prioritari dell’investimento formativo. Sotto il profilo dei contenuti la formazione deve riguardare, anche in modo specialistico, tutte le diverse fasi di costruzione dei PTPC e delle connesse relazioni annuali: a titolo di esempio, l’analisi di contesto, esterno e interno, la mappatura dei processi, l’individuazione e la valutazione del rischio, l’identificazione delle misure e le modalità di verifica, monitoraggio e controllo delle stesse. Sotto il profilo delle modalità didattiche, sono da valorizzare modalità formative secondo la logica della diffusione e implementazione dell’esperienza e delle buone pratiche, da condursi anche sul campo, rivolte sia ai RPCT che alle figure di supporto finalizzate a costruire la consapevolezza e la corresponsabilizzazione degli operatori e dei responsabili delle aree a rischio nelle attività di monitoraggio dei processi e dei procedimenti. I percorsi formativi dovranno pertanto connotarsi per una sempre maggiore specificità in relazione alle peculiarità del settore sanitario rispetto agli altri settori della pubblica amministrazione e per l’approccio operativo finalizzato al consolidamento di una reale e concreta capacità di applicazione e di trasferimento delle competenze nell’espletamento delle funzioni rivestite all’interno dell’organizzazione. Acquisti in ambito sanitario Fermo restando quanto già indicato nella determinazione ANAC n. 12 del 28 ottobre 2015, nella sezione II Sanità e, in particolare, quanto ivi riportato al § 2.1.1. “Contratti pubblici”, di seguito si forniscono ulteriori, specifiche indicazioni relative al processo degli acquisti in ambito sanitario. 1. Misure per la gestione dei conflitti di interessi nei processi di procurement in sanità Nell’ambito degli appalti in sanità, l’esigenza di affrontare in modo sistemico e strategico le situazioni di conflitti di interesse appare maggiormente sentita a causa delle caratteristiche strutturali di potenziale intrinseca “prossimità” di interessi presenti nell’organizzazione sanitaria con specifico riferimento al settore degli acquisti, generata dal fatto che i soggetti proponenti l’acquisto sono spesso anche coloro che utilizzano i materiali acquistati. L’argomento riveste una particolare rilevanza alla luce anche del d.lgs. 50/2016 (nuovo Codice dei contratti pubblici) che, all’art. 42, reca una specifica previsione sulla individuazione e risoluzione dei conflitti di interesse che possano essere percepiti come minaccia alla imparzialità e all’indipendenza del personale della stazione appaltante. Occorre, pertanto, predisporre misure per una corretta gestione dei conflitti potenziali e/o effettivi attraverso l’enucleazione delle fattispecie tipiche di conflitto di interessi e la divulgazione di informazioni finalizzate a consentire ai tecnici e ai professionisti sanitari più esposti al rischio di conflitto di interessi di agire con la consapevolezza richiesta, anche attraverso la compilazione delle apposite dichiarazioni; è inoltre opportuna la definizione di un modello di gestione dei conflitti di interessi e la informazione dei professionisti coinvolti. Di conseguenza si propongono le seguenti possibili misure: • adozione di documenti strategici finalizzati a facilitare l’implementazione coordinata di misure preventive che agiscano contemporaneamente sul piano della sensibilizzazione e della responsabilizzazione degli attori coinvolti; • predisposizione di una modulistica per le dichiarazioni di assenza di conflitti di interesse e definizione di apposite procedure per la raccolta, tenuta ed aggiornamento di tali dichiarazioni; • formazione dei professionisti coinvolti mediante moduli dedicati alla gestione dei conflitti di interesse; • informazione puntuale e tempestiva degli operatori coinvolti, ad esempio mediante l’adozione e diffusione di documenti esplicativi che facilitino l’autovalutazione delle situazioni personali e relazionali con riferimento al contesto in cui ciascun soggetto si trova ad operare (in una Commissione giudicatrice, in un Collegio tecnico per la stesura degli atti di gara, ecc.). L’AGENAS potrà offrire un supporto operativo per l’attuazione delle misure indicate attraverso materiale pubblicato sul proprio sito istituzionale. 1.1 Possibili ambiti di conflitto di interesse Le situazioni che possono generare conflitti di interessi dovrebbero, per le ragioni anzidette, essere gestite dalle aziende sanitarie in modo che i contatti tra mondo professionale interno ed operatori economici possano avvenire all’interno di un quadro regolamentato in termini di procedure definite a livello aziendale. In tale ottica si suggeriscono le seguenti misure, utili a costituire un valido contributo procedurale alla riduzione del rischio e la cui adozione favorisca la percezione di un’attività imparziale e indipendente da parte delle stazioni appaltanti, sia nella fase di progettazione che in quella di selezione del contraente. * Nell’ambito della sponsorizzazione di attività: • nei casi in cui la formazione dei professionisti sia sponsorizzata con fondi provenienti da imprese private, le aziende predispongono procedure che prevedano che le richieste di sponsorizzazione siano indirizzate direttamente alla struttura indicata dall’azienda (es. Direzione Sanitaria) e non ai singoli professionisti o a loro associazioni private e che tali richieste non siano mai nominative, dovendo essere l’azienda a indicare e autorizzare i dipendenti idonei a beneficiarne (in relazione al ruolo organizzativo, al bisogno formativo, ecc.); • le risorse derivanti dalle sponsorizzazioni sono utilizzate attraverso l’istituzione di un fondo dedicato alla formazione dei professionisti, da gestire secondo criteri di rotazione, imparzialità e con modalità che garantiscano la piena trasparenza. – Nel rilascio di pareri, nulla osta, autorizzazioni allo svolgimento di attività extra impiego: • le aziende definiscono un procedimento per il rilascio di pareri, nulla osta, autorizzazioni allo svolgimento di attività extra impiego che tenga conto: nel caso in cui il soggetto richiedente sia membro di una commissione di gara, della possibile insorgenza di situazioni di conflitto quando la procedure di gara sia in uno stato avanzato di espletamento che non consente agevoli sostituzioni o quando non siano presenti professionalità fungibili con quella del dipendente; della programmazione degli acquisti e, quindi, delle professionalità che potranno essere chiamate a partecipare alle future procedure di gara. 2. Rafforzamento della trasparenza nel settore degli acquisti La pubblicazione dei dati relativi alle attività negoziali da parte delle stazioni appaltanti è finalizzata a consentire l’accesso alle informazioni essenziali, che devono essere innanzitutto contenute negli atti riguardanti un appalto. Il rispetto dell’obbligo di pubblicazione di tali dati e informazioni richiede, quindi, anche una maggiore cognizione e responsabilità nell’adozione degli atti e nella definizione dei relativi contenuti, in quanto deve consentire alle figure preposte – ed ai cittadini in senso generale – la piena conoscenza dell’operato della pubblica amministrazione. Pertanto, fermi restando gli obblighi di pubblicazione previsti dalla legislazione vigente, di seguito sono indicati, quali misure di trasparenza, un set di dati da pubblicare sul sito istituzionale delle stazioni appaltanti e un set di dati minimi da riportare nella determina a contrarre, nel contratto e in tutti gli ulteriori atti connessi all’appalto (atto di proroga, di rinnovo, di variante, ecc.), con un duplice livello di controllo del rispetto di tali misure da parte sia del RPCT sia del collegio dei revisori aziendali. Set di dati minimo all’interno degli atti relativi ad appalti: – presenza o meno dell’oggetto dell’appalto negli atti di programmazione, con indicazione dell’identificativo dell’atto di programmazione; – oggetto e natura dell’appalto (lavori/servizi/forniture/misto con esplicitazione della prevalenza; in caso di contratto di global service comprensivo di diversi servizi, indicazione analitica dei diversi servizi, evidenziando eventuali beni e/o servizi ad esclusivo utilizzo della Direzione generale aziendale); – procedura di scelta del contraente e relativi riferimenti normativi (aperta/ristretta/competitiva con negoziazione/negoziata senza previa pubblicazione del bando/procedura sotto soglia); – importo dell’appalto, con specificazione anche dei costi derivanti dal ciclo di vita dell’appalto (ad es. per materiali connessi all’utilizzo e/o per manutenzioni); – termini temporali dell’appalto: durata dell’esigenza da soddisfare con l’appalto (permanente/una tantum), durata prevista dell’appalto, se disponibili, decorrenza e termine dell’appalto; – RUP e, quando nominati, direttore dei lavori, direttore dell’esecuzione e commissione di collaudo; – CIG e (se presente) CUP. Set di dati oggetto di pubblicazione: Oltre ai dati di cui all’art. 29 del d.lgs. 50/2016: – presenza o meno dell’oggetto dell’appalto negli atti di programmazione, con indicazione dell’identificativo dell’atto di programmazione; – fase della procedura di aggiudicazione o di esecuzione del contratto (indizione/aggiudicazione/affidamento/proroga del contratto/rinnovo del contratto ecc./risoluzione) nonchè motivazioni di eventuali proroghe, rinnovi, affidamenti in via diretta o in via d’urgenza; – indicazione dell’operatore economico affidatario del medesimo appalto immediatamente precedente a quello oggetto della procedura di selezione; – RUP e, quando nominati, direttore dei lavori, direttore dell’esecuzione e commissione di collaudo; – CIG e (se presente) CUP; – resoconto economico e gestionale dell’appalto, incluso l’ammontare delle fatture liquidate all’appaltatore. 2.1 Altre proposte di misure di trasparenza nel settore degli acquisti Ulteriori proposte di misure tese a rafforzare ed elevare il livello di trasparenza in questo settore trovano specifica applicazione in relazione alle diverse fasi del processo di acquisto. > Nella fase di progettazione della gara le stazioni appaltanti pubblicano le seguenti informazioni: – criteri per gestire le varie forme di consultazione preliminare di mercato con i soggetti privati e con le associazioni di categoria, prevedendo la rendicontazione sintetica degli incontri (anche di quelli eventualmente aperti al pubblico); – elenco dei soggetti abilitati a svolgere la funzione di responsabili del procedimento di gara, con relativi curricula (nel rispetto della normativa sulla tutela della riservatezza); – per le centrali di committenza, pubblicazione periodica dello stato di avanzamento dei lavori per la realizzazione delle iniziative programmate, inclusa la previsione della conclusione del procedimento; – criteri univoci per: le procedure finalizzate all’accertamento delle condizioni di cui all’art. 63, co. 2, lett. b) del d.lgs. 50/2016 (per il caso di esclusive dichiarate o di infungibilità tecnica); la scelta degli operatori economici da invitare nelle procedure negoziate sotto soglia (indagini di mercato o elenco fornitori). • Nella fase di istituzione delle commissioni di gara, le stazioni appaltanti pubblicano le seguenti informazioni: – tempestiva pubblicazione dei nominativi e dei curricula dei commissari selezionati, in conformità a quanto previsto all’art. 29 del d.lgs. 50/2016; – la modalità di scelta dei commissari, in caso di nomina da parte della stazione appaltante di componenti interni alla stessa; – modalità con cui procedere al sorteggio in caso di nomina di componenti esterni ai sensi dell’art. 77 del d.lgs. 50/2016; – calendario delle sedute di gara. • Nella fase di aggiudicazione e stipula del contratto è opportuno che sia effettuato il monitoraggio del tempo intercorrente tra l’aggiudicazione e la data di stipula del contratto. • Nella fase di esecuzione del contratto le stazioni appaltanti pubblicano le seguenti informazioni: – provvedimenti di adozione di varianti, contestualmente alla loro adozione e almeno per tutta la durata del contratto, con riferimento a quelle per il cui valore vi è altresi’ obbligo di comunicazione all’ANAC; – eventuali variazioni contrattuali rispetto alle indicazioni fornite dalle centrali di committenza con obbligo di segnalazione a queste ultime. 3. Misure di controllo Appalti di importo inferiore alla soglia di ? 40.000 È opportuno che sia organizzato un adeguato sistema di controllo su questo tipo di affidamenti strutturando flussi informativi tra il RUP, il RPCT e il collegio dei revisori aziendali, al fine di consentire di verificare, nel caso in cui l’appaltatore individuato risulti già affidatario del precedente appalto, se la scelta sia sorretta da idonea motivazione. Il RPCT può richiedere ai RUP dati e informazioni, anche aggregate, sulle scelte e le relative motivazioni nonchè su eventuali scostamenti tra l’importo del contratto e l’importo corrisposto all’appaltatore, illustrandone la motivazione; nel caso in cui sia rilevata la violazione dell’art. 35 del Codice dei contratti pubblici – in ordine al calcolo dell’importo dell’appalto, che deve comprendere i costi aggiuntivi connessi all’utilizzo o alla manutenzione dei beni – il RPCT provvede a segnalare il fatto agli organi di vertice e ad altri organi competenti. Acquisti autonomi e proroghe contrattuali Si richiama l’esigenza di motivazione espressa della scelta di ricorrere alla proroga contrattuale, con esplicitazione dei vari livelli di responsabilità e relativa asseverazione da parte dei vertici aziendali. Per i beni e servizi che non rientrano per categoria e per importo nell’ambito di applicazione del d.p.c.m. 24 dicembre 2015 (in attuazione dell’art. 9, co. 3, del d.l. 66/2014), è opportuno prevedere l’inserimento nel provvedimento autorizzativo della espressa indicazione che il bene o servizio acquistato «non rientra tra le categorie merceologiche del settore sanitario come individuate dal d.p.c.m. di cui all’art. 9 co. 3 del d.l. 66/2014 e s.m.i. e relativi indirizza applicativi». 4. Sotto-processo di adesione agli strumenti delle centrali di committenza o dei soggetti aggregatori Negli ultimi anni il processo di approvvigionamento, soprattutto in ambito sanitario, ha vissuto una profonda trasformazione. La costituzione di centrali di committenza a livello nazionale e l’avvio dei lavori dei soggetti aggregatori di cui all’art. 9 del d.l. 66/2014, nonchè le previsioni di cui all’art. 37 del d.lgs. 50/2016 in ordine alle varie forme di aggregazione e centralizzazione delle committenze, (di seguito, indicati tutti come “centrali di committenza”), stanno sempre più plasmando la geografia e la struttura della domanda pubblica. Di conseguenza il ruolo delle singole stazioni appaltanti muta, poichè il venir meno delle fasi di progettazione, selezione del contraente e aggiudicazione richiede una maggiore attenzione alla programmazione e alla esecuzione dei contratti. I profili di rischio collegati si arricchiscono di aspetti peculiari e tipici che richiedono l’adozione di misure specifiche da aggiungere a quelle del processo più generale. L’AGENAS fornirà il necessario supporto per l’analisi e la corretta trattazione dei rischi. Processi e procedimenti rilevanti • Nella fase di programmazione possono rilevare le seguenti attività: – formulazione ed invio della programmazione e dei relativi aggiornamenti nei tempi previsti dalla centrale di committenza; – definizione delle competenze per l’approvazione del fabbisogno e definizione dei livelli organizzativi (referenze qualificate); – verifica della pertinenza dei fabbisogni con strumenti già disponibili o programmati; formulazione del fabbisogno secondo codifiche proprie delle centrali di committenza anche mediante l’utilizzo di modelli e vocabolari comuni; – pubblicazione della programmazione e monitoraggio dello stato di avanzamento dei lavori della centrale. • Nella fase di adesione possono rilevare le seguenti attività: – analisi ed esame del contenuto degli strumenti messi a disposizione dalle centrali (accordi quadro, convenzioni, SDA, ecc.) e compatibilità con i fabbisogni espressi o non programmati; – definizione dell’oggetto degli atti di adesione (codifica dei fabbisogni non programmati e comparazione quali-quantitativa con i prodotti/servizi messi a disposizione dalle centrali); – formalizzazione delle adesioni (appalto specifico, ordine, contratto, ecc.) secondo le regole degli strumenti posti in essere dalla centrale. • Nella fase di esecuzione e rendicontazione dei singoli contratti rilevano gli aspetti legati alla interpretazione delle condizioni contrattuali, alla contrattualizzazione/ordinazione delle prestazioni, alle comunicazioni con la centrale di committenza e alle comunicazioni alla centrale sulle verifiche (di processo, di outcome, ecc.) che la stessa pone in essere. Possibili eventi rischiosi • Per la fase di formulazione e comunicazione dei fabbisogni possono rilevare il mancato rispetto dei tempi di invio della programmazione e dei relativi aggiornamenti e la mancata o non chiara definizione delle competenze per l’approvazione del fabbisogno e la definizione dei livelli organizzativi (referenze qualificate). Ciò può comportare la parziale comunicazione con la centrale, generando una progettazione e un’aggiudicazione non allineata con i reali fabbisogni oppure l’aggiudicazione di prodotti che non corrispondono alle esigenze e che non verranno poi acquisiti; l’elusione degli obblighi di adesione causata dall’assenza di strumenti e procedure di verifica della pertinenza dei fabbisogni con strumenti già disponibili o programmati; il mancato rispetto o utilizzo dei vocabolari o delle codifiche previste dalla centrale porta alla formulazione di un fabbisogno non chiaro che può inficiare la corretta progettazione della gara da parte delle centrali; l’effettuazione di acquisizioni autonome in presenza di strumenti messi a disposizione dalla centrale, causato dal mancato monitoraggio dello stato di avanzamento dei lavori della centrale stessa. • Per la fase di adesione possono rilevare rischi legati ad una non corretta analisi del contenuto degli strumenti messi a disposizione dalle centrali, al fine di dichiararne la non compatibilità con i fabbisogni espressi o non programmati o con le esigenze di appropriatezza dell’utilizzo dei prodotti; la definizione dell’oggetto degli atti di adesione allo scopo di rendere necessarie acquisizioni complementari; il mancato rispetto dei limiti temporali e quantitativi di adesione allo scopo di rendere necessarie acquisizioni in urgenza o frazionare artificiosamente il bisogno. • Per la fase di esecuzione e rendicontazione dei singoli contratti possono emergere rischi legati alla non corretta interpretazione delle condizioni contrattuali allo scopo di dichiararne la non compatibilità con le esigenze di approvvigionamento; al mancato rispetto dei limiti quantitativi e qualitativi del contenuto delle prestazioni; richiesta di prestazioni non comprese nelle opzioni di variazione; la mancata o non corretta comunicazione delle inadempienze, delle penali, delle sospensioni, delle verifiche negative di conformità e delle risoluzioni alla centrale di committenza che inficiano, da un lato, la corretta gestione degli accordi e delle convenzioni da parte della centrale e, dall’altra, possono essere utilizzati al solo scopo di giustificare acquisizioni autonome sovrapponibili; l’effettuazione di acquisizioni di prestazioni complementari che modifichino sostanzialmente il profilo qualitativo dei prodotti/servizi aggiudicati dalle centrali. Anomalie significative • Per la fase di formulazione e comunicazione dei fabbisogni possono costituire elementi rilevatori di rischio: il mancato rispetto dei tempi di invio della programmazione e dei relativi aggiornamenti; l’invio delle comunicazioni/informazioni da parte di soggetti non titolati; la pubblicazione/effettuazione di gare con oggetti sovrapponibili a quelli delle centrali di committenza; la presenza di proroghe contrattuali per beni e servizi oggetto di strumenti attivi delle centrali; presenza di solleciti da parte delle centrali di acquisto. • Nella fase di adesione, esecuzione e rendicontazione possono segnalare la presenza di rischi la stipula di contratti autonomi/affidamenti sotto soglia nelle categorie riservate ai soggetti aggregatori; l’approvazione di variazioni qualitative e quantitative che non dimostrino il rispetto dei limiti consentiti dagli strumenti delle centrali; la contrattualizzazione/il pagamento di prestazioni in variazione non motivati (nella determina o nei certificati di pagamento) con riferimento alle opzioni consentite; l’assenza di rendicontazioni circa le comunicazioni delle inadempienze, delle penali, delle sospensioni, delle verifiche negative di conformità e delle risoluzioni alla centrale di committenza; il superamento delle soglie di spesa annua per le categorie merceologiche riservate ai soggetti aggregatori e stabilito dal d.p.c.m. di cui all’art. 9, co. 3 del d.l. 66/2013. Indicatori • Per la fase di formulazione e comunicazione dei fabbisogni e di adesione possono considerarsi indicatori significativi il rapporto tra il numero degli affidamenti in adesione ed il numero totale dei contratti; gli importi affidati in adesione sul totale degli affidamenti; il numero di affidamenti in autonomia nelle categorie merceologiche riservate ai soggetti aggregatori in rapporto al totale degli affidamenti della singola stazione; gli importi di acquisizione comunicati alla centrale di committenza e gli importi delle adesioni effettuate in un determinato arco temporale e lo scostamento (in difetto o eccesso) rispetto al 100%; lo scostamento dai livelli medi di adesioni ai contratti delle centrali di committenza registrati da amministrazioni comparabili. • Per la fase di esecuzione e rendicontazione indicatori utili possono essere costituiti da: rapporto tra il numero delle varianti/servizi e forniture complementari e quello delle adesioni; rapporto tra gli importi delle variazioni/servizi e forniture complementari e quello delle adesioni; confronto (anche in termini di rapporto semplice o di incidenza) tra il numero (anche come media) delle variazioni/servizi e forniture complementari effettuate sui contratti stipulati in autonomia e quelle poste in essere sui contratti in adesione. Possibili misure • In fase di programmazione: – obbligo di evidenziare, nella programmazione annuale, il ricorso agli strumenti delle centrali di committenza nonchè di prevedere una sezione separata per le categorie riservate ai soggetti aggregatori; – adozione e pubblicazione di procedure interne di segregazione di responsabilità e compiti per le fasi di manifestazione, elaborazione, analisi e validazione del fabbisogno ed identificazione dei soggetti titolati a trasmettere i fabbisogni alle centrali; – previsione di una fase di aggiornamento della programmazione in corso di anno; – previsioni di audit interni circa il rispetto dei tempi e delle codifiche di prodotti e servizi rilevati dalle centrali di committenza; – obbligo di motivare sul piano tecnico e gestionale, anche mediante valutazioni di appropriatezza d’uso, la formulazione di bisogni che fuoriescano dagli standard comunicati alla centrale di committenza in corso di programmazione. • In fase di adesione: – previsione di istanze di controllo interno (o di validazione tecnica) in caso di acquisizione di beni e servizi in quantità diverse da quelle programmate e comunicate; – adozione di modelli di contratto di adesione ad accordi quadro, convenzioni che standardizzino i processi di adesione anche mediante l’utilizzo di check list dei contenuti e dei passaggi obbligatori; – previsione generalizzata di documentare l’esame degli strumenti delle centrali; – comunicazioni alle centrali di acquisto delle adesioni parziali o in quantità diverse da quelle programmate, accompagnate da eventuali relazioni circa la non compatibilità/sovrapponibilità con i fabbisogni espressi o emersi in seguito alla relativa comunicazione, nonchè con le esigenze di appropriatezza d’uso sopravvenute; – attivazione di audit interni in caso di segnalazioni, osservazioni o richiami da parte delle centrali di committenza a causa di mancate o parziali adesioni che richiedano necessarie acquisizioni complementari, nonchè in caso di mancato rispetto dei limiti temporali e quantitativi di adesione o di attivazione degli strumenti (mancato rispetto dei limiti minimi di ordinazione; dichiarazione di inadeguatezza dei tempi di consegna o realizzazione della prestazione, ecc.). • In fase di esecuzione e rendicontazione dei singoli contratti: – pubblicazione delle acquisizioni realizzate in autonomia, a prescindere dagli importi; – necessità di motivazione in ordine alle esigenze sia tecniche che cliniche qualora l’acquisizione autonoma si fondi su ragioni di infungibilità; – pubblicazione delle acquisizioni in adesione che contengano delle variazioni rispetto ai profili qualitativi e quantitativi di beni e servizi oggetto delle convenzioni (oltre i limiti opzionali già previsti nei medesimi strumenti); – previsione di una valutazione di outcome (oltre che di conformità, sui maggiori vantaggi ottenuti) in caso di acquisizioni autonome o in variazione rispetto agli standard previsti negli strumenti delle centrali; – pubblicazione dei certificati di conformità/parziale, conformità/mancata, conformità che tengano conto anche delle penali, delle sospensioni, delle verifiche e delle risoluzioni parziali, ecc.; – trasmissione di report periodici alle centrali contenente le citate informazioni. 5. Rilevazione delle performance gestionali delle aziende sanitarie e degli enti del SSN in tema di acquisti: strumento operativo Al fine di introdurre un sistema di monitoraggio periodico da parte delle regioni sulle performance gestionali delle aziende sanitarie e degli enti del SSN in tema di acquisti, le regioni dovrebbero dotarsi di uno strumento operativo di rilevazione dei dati finalizzato ad implementare una banca dati utile, anche per le centrali di committenza, per la definizione del piano triennale dei fabbisogni e il piano annuale degli acquisti, nonchè per le attività di pianificazione e controllo. L’AGENAS fornirà il necessario supporto alle regioni e province autonome attraverso materiale pubblicato sul proprio sito istituzionale. Nomine Premessa L’ambito di attività relativo al conferimento degli incarichi, alla valutazione o alla revoca o conferma degli stessi, si configura, nel servizio sanitario, tra le aree a “rischio generali” di cui alla determinazione ANAC del 28 ottobre 2015, n. 12. Nel settore sanitario il “rischio” connesso alla mancata e/o carente osservanza delle norme in materia di trasparenza e/o dei criteri di imparzialità e/o all’uso distorto della discrezionalità, assume ulteriore rilievo anche per gli aspetti inerenti la qualità delle cure. Una delle principali componenti della qualità, infatti, risiede proprio nella capacità, competenza ed esperienza dei professionisti in rapporto alla tipologia del servizio, alle caratteristiche del contesto organizzativo e, soprattutto, al livello di responsabilità che l’incarico comporta. Il conferimento degli incarichi è una delle dirette prerogative del Direttore generale delle aziende sanitarie in cui si misura in maniera più evidente la capacità e l’integrità manageriale e l’adeguatezza degli strumenti dallo stesso utilizzati al fine di assicurare la corretta programmazione, pianificazione e valutazione del valore delle risorse umane e professionali e, conseguentemente, dell’organizzazione dei servizi. Per tale ragione prioritaria, il presente approfondimento si occupa, estendendo le previsioni già contenute nella citata determinazione dell’Autorità (27), degli incarichi relativi alla dirigenza medica e sanitaria (28). Ciò allo scopo di fornire alle aziende sanitarie indicazioni e suggerimenti su possibili misure di prevenzione del rischio – nell’accezione sopra richiamata -, da porre in essere tuttavia anche per i procedimenti di attribuzione di incarichi riferiti alla dirigenza non sanitaria (29), per quanto applicabili ai sensi delle disposizioni normative e regolamentari e delle specifiche discipline contrattuali vigenti. Vale, infatti, a prescindere dal ruolo, dalla qualifica e dal settore di riferimento, il principio per il quale ogni azienda deve dare evidenza dei processi di nomina e di conferimento degli incarichi in modo da assicurare il massimo livello di trasparenza e l’utilizzo di strumenti di valutazione che privilegino il merito e l’integrità del professionista aspirante all’incarico, al fine di garantire la tutela ed il perseguimento del pubblico interesse. 1. Dirigenza medica e sanitaria I CCNL della dirigenza del SSN prevedono le seguenti tipologie di incarichi: a) incarico di direzione di struttura complessa; b) incarico di direttore di dipartimento, di distretto sanitario o di presidio ospedaliero di cui al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502; c) incarico di direzione di struttura semplice; d) incarichi di natura professionale anche di alta specializzazione, di consulenza, di studio, e ricerca, ispettivi, di verifica e di controllo; e) incarichi di natura professionale conferibili ai dirigenti con meno di cinque anni di attività. Tali tipologie di incarichi costituiscono gli elementi di base offerti dalla disciplina contrattuale su cui costruire percorsi di sviluppo delle carriere dirigenziali, secondo le strategie organizzative proprie di ogni azienda nel quadro della normativa vigente e della programmazione regionale in tema di politiche del personale. L’approfondimento svolto è rivolto, nello specifico, alle tipologie di incarichi di cui ai punti a), b) e c) della elencazione, essendo interessate da un maggior grado di competitività e, per tale ragione, è necessario che venga data piena evidenza delle relative procedure di conferimento, al fine di garantirne la trasparenza, la correttezza e le motivazioni ad esse sottese. In via generale, si fa presente che gli obblighi di pubblicazione dei dati, già previsti per la dirigenza sanitaria dall’art. 41, co 2 e 3, d.lgs. 33/2013 – ovvero direttori generali, direttori sanitari, direttori amministrativi, responsabili di dipartimento e di strutture complesse – sono estesi anche ai responsabili di struttura semplice, per effetto della modifica apportata dal d.lgs. 97/2016. Al fine di rendere coerente l’applicazione della norma di cui all’art. 41, co 3, cit., il riferimento all’art. 15 del d.lgs. 33/2013 ivi contenuto, e presumibilmente rimasto immutato per un difetto di coordinamento normativo, deve intendersi all’art. 14 del medesimo decreto; diversamente si avrebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra i dirigenti medici e gli altri dirigenti. 1.1 Incarichi di direzione di struttura complessa Degli incarichi di direzione di struttura complessa si è già trattato in via generale nella determinazione ANAC n. 12/2015, sezione II Sanità, § 2.1.2 «Incarichi e nomine». In questa sede si affrontano in dettaglio le singole tipologie di incarichi afferenti alle varie fattispecie di struttura complessa e alle relative procedure di conferimento (30). 1.1.1 Direttore di dipartimento La natura di tale incarico è di tipo prevalentemente organizzativo-gestionale con implicazioni anche con il settore degli acquisti, è infatti in capo al Direttore del dipartimento, sia esso ospedaliero o territoriale, la responsabilità anche in ordine alla corretta e razionale programmazione e gestione delle risorse assegnate per la realizzazione degli obiettivi attribuiti. La relativa procedura di conferimento dell’incarico prevede la scelta, da parte del Direttore generale, fra i dirigenti con incarico di direzione delle strutture complesse aggregate nel dipartimento stesso. In questo contesto, eventuali rischi possono configurarsi nell’uso non trasparente e adeguatamente motivato dell’esercizio del potere discrezionale di scelta. Per evitare e contrastare tali rischi e al fine di garantire comunque il prevalere dei profili di merito nell’attribuzione del suddetto incarico, le aziende sanitarie dovranno orientare le opportune misure di prevenzione al rafforzamento della trasparenza, avuto riguardo delle seguenti indicazioni: a) esplicitazione, all’interno degli atti del procedimento, della conformità dello stesso alle previsioni dell’atto aziendale ed agli indirizzi di programmazione regionale; b) predeterminazione dei criteri di scelta e, ove non sussista apposita disciplina regionale, ai sensi dell’art. 17 bis, co. 3, del d.lgs. 502/1992, esplicitazione delle modalità di partecipazione del Comitato di dipartimento alla individuazione dei direttori di dipartimento; c) esplicitazione, negli atti relativi al procedimento di nomina, della motivazione sottesa alla scelta in relazione ai requisiti professionali, ai compiti affidati e alla pregressa performance della struttura dipartimentale, al fine di delineare il perimetro di valutazione rispetto anche al raggiungimento degli obiettivi di miglioramento che la struttura si pone; d) pubblicazione degli atti del procedimento con evidenziazione di quanto previsto ai punti a) e b). 1.1.2 Direttore di distretto sanitario o di presidio ospedaliero La procedura di conferimento di tale incarico (31), ai sensi dell’art. 3 sexies del d.lgs. 502/1992, presenta un maggior livello di competitività, essendo più ampia la platea dei potenziali aspiranti in ragione dell’esperienza maturata nei servizi territoriali e dell’adeguata formazione nella loro organizzazione. In questo ambito, fatte salve le eventuali specifiche discipline regionali, è opportuno, per le medesime ragioni enucleate con riferimento agli incarichi di cui al paragrafo precedente, che le aziende – ove la regione non regoli la materia – adottino tutti i possibili interventi ed azioni finalizzati a garantire i principi di imparzialità e parità di trattamento, attraverso apposite procedure selettive improntate a tali principi e, più in generale, al principio di buona amministrazione. Sarebbe auspicabile al riguardo, mutuare buone prassi già adottate da altre regioni/aziende sanitarie (32) confluite, in parte, nelle indicazioni che seguono e che per tale ambito si richiamano, quali misure di prevenzione, ove non previste come obblighi da eventuali norme/discipline regionali: a) avvio di procedura selettiva attraverso avviso/bando pubblico in cui siano esplicitati i requisiti previsti dalla normativa vigente nazionale ed eventualmente regionale; b) costituzione della commissione selezionatrice; c) predeterminazione dei criteri di selezione; d) esplicitazione, negli atti relativi al procedimento di nomina, della motivazione sottesa alla scelta in relazione ai requisiti di partecipazione e ai criteri di selezione di cui ai rispettivi punti a) e c); e) pubblicazione degli atti del procedimento. 1.2 Incarichi di direzione di struttura semplice Le strutture semplici rappresentano, nell’assetto dell’azienda sanitaria, l’articolazione organizzativa di base di cui si compone la struttura complessa. Gli indirizzi di programmazione e gli standard di riferimento recati dalla normativa nazionale e dai relativi regolamenti attuativi, pongono chiari limiti all’istituzione e/o mantenimento di unità operative complesse e, conseguentemente, anche le unità operative semplici devono riparametrarsi in relazione alle prime sulla base di un rapporto predeterminato. Ne deriva, quindi, un presupposto vincolo di programmazione riferito alla circostanza che dette strutture devono essere predeterminate negli strumenti di programmazione regionale e aziendali, in numero (nel rispetto del rapporto posto come riferimento) (33) e tipologia (nel rispetto degli standard per l’assistenza ospedaliera e territoriale) (34). Pertanto, sebbene la preposizione a tali strutture rientri tra gli incarichi da conferirsi, ai sensi dell’art. 15, co. 7-quater, d.lgs. 502/1992 e s.m.i., ai dirigenti che abbiano maturato un’anzianità di servizio di almeno cinque anni nella disciplina oggetto dell’incarico, la competitività è relativa – in questo ambito – sia al numero definito delle posizioni oggetto di conferimento dell’incarico, sia al potenziale numero di aspiranti che possiedono i previsti requisiti soggettivi. Questa tipologia di incarico (35) presenta procedure di conferimento che, rispetto ai casi già trattati nei precedenti paragrafi, risultano meno disciplinate da criteri generali e da atti di indirizzo nazionale, se non quelli derivanti dalla disciplina del Contratto collettivo nazionale (CCNL), sicchè è più frequente riscontrare in questo ambito una certa variabilità di prassi regionali e/o aziendali sia nelle procedure di conferimento che nella durata degli incarichi (nei limiti del range stabilito da tre a cinque anni). Come indicato per gli incarichi di cui al § 1.1.2, anche per questa fattispecie – ove la regione non regoli la materia – è opportuno che le aziende sanitarie adottino tutti i possibili interventi ed azioni finalizzati a rafforzare la trasparenza delle relative procedure di conferimento, avuto riguardo delle buone prassi già adottate da alcune aziende e delle seguenti indicazioni che, in parte, le ripropongono: a) verifica, all’interno degli atti del procedimento, della conformità dello stesso alle previsioni dell’atto aziendale ed agli indirizzi di programmazione regionale; b) pubblicazione delle unità operative semplici per le quali va conferito l’incarico (è auspicabile che le funzioni delle UOS vengano qualificate nell’ambito di atti di organizzazione in modo tale che i requisiti degli aspiranti di cui al punto successivo trovino nei citati atti la loro motivazione); c) avvio di procedura selettiva attraverso avviso/bando pubblico in cui siano stati esplicitati i requisiti soggettivi degli aspiranti; d) costituzione della commissione selezionatrice; e) predeterminazione dei criteri di selezione; f) misure di trasparenza, nel rispetto della normativa sulla tutela della riservatezza, della rosa degli idonei; g) esplicitazione, negli atti relativi al procedimento di nomina, della motivazione sottesa alla scelta in relazione ai requisiti di partecipazione e ai criteri di selezione di cui ai rispettivi punti a) e c); h) esplicitazione della motivazione alla base della scelta della durata dell’incarico più o meno lunga all’interno del minimo/massimo previsto (la durata degli incarichi dovrebbe essere definita non volta per volta ma in modo “standard”, oppure la stessa dovrebbe essere esplicitamente collegata a provvedimenti di programmazione); i) pubblicazione degli atti del procedimento. Per tutti i casi in cui si avvii una procedura selettiva a evidenza pubblica, con la costituzione della commissione, oltre alle misure di cui ai punti precedenti, è necessario sottoporre i componenti delle commissioni a processi di rotazione nonchè alla sottoscrizione, da parte degli stessi, delle dichiarazioni di insussistenza o di eventuale sussistenza di incompatibilità o conflitto di interesse. Sarebbe auspicabile prevedere, nella composizione della commissione di selezione, almeno un componente esterno. Nel caso, inoltre, di avviso pubblico in cui non si proceda alla costituzione della commissione, è opportuno fornire indicazioni per la composizione degli organi di natura tecnica che dovranno selezionare i candidati (es. sorteggio informatico). Laddove invece non si preveda l’apertura di procedure competitive, è necessario – quale misura di prevenzione – richiedere un atto di responsabilità dell’organo nominante sul rafforzamento delle motivazione della scelta e di pubblicazione di quest’ultima. Come precisato al § 1, si evidenzia che il d.lgs. 97/2016 ha introdotto l’obbligo di pubblicazione dei dati, già previsti per la dirigenza sanitaria, anche per i responsabili di struttura semplice. 1.3 Incarichi di natura professionale anche di alta specializzazione, di consulenza, di studio, e ricerca, ispettivi, di verifica e di controllo Le procedure di conferimento di tali incarichi (36) sono particolarmente dettagliate nella disciplina contrattuale di cui al CCNL 8.6.2000 (art. 28) I biennio economico e, per quanto concerne in particolare gli effetti della valutazione per la conferma o il conferimento di nuovi incarichi di maggior rilievo professionali o gestionali, nella disciplina di cui all’art. 33 del CCNL 8.6.2000, come sostituito dall’art. 28 del CCNL 3.11.2005. Occorre pertanto che le aziende sanitarie osservino il massimo livello di trasparenza per l’affidamento o revoca degli incarichi dirigenziali di cui trattasi, attraverso la pubblicazione dell’atto di conferimento sul sito dell’azienda, comprendendo l’ambito del programma che si intende realizzare, l’oggetto dell’incarico e i criteri di scelta. 2. Sostituzione della dirigenza medica e sanitaria L’istituto delle sostituzioni (37) rappresenta un ambito particolarmente vulnerabile al rischio di eventi corruttivi legati alla possibile messa in atto di condotte elusive delle ordinarie procedure di selezione. Possibili rischi sono, ad esempio, ritardo o mancato avvio delle procedure concorsuali alla base della necessità di copertura del posto vacante con la sostituzione oppure, a sostituzione avvenuta, prolungamento intenzionale dei tempi occorrenti per l’avvio delle procedure ordinarie di conferimento al titolare dell’incarico, con conseguente prolungamento del periodo di sostituzione per oltre sei mesi (vantaggio, in quest’ultimo caso, del sostituto la cui retribuzione viene integrata ai sensi di quanto previsto dal CCNL). Per quanto i casi in cui fare ricorso alle sostituzioni siano puntualmente disciplinati dal CCNL, per contrastare i connessi rischi, la misura di prevenzione prioritaria in questo ambito è quella di rendere quanto più possibile trasparenti le relative procedure avuto riguardo delle seguenti indicazioni: a) pubblicazione, aggiornamento e monitoraggio periodico del numero dei posti oggetto di sostituzione/sostituibili per anno; b) esplicitazione in dettaglio e relativa pubblicizzazione della motivazione del ricorso alla sostituzione. 3. Altre tipologie di incarichi 3.1 Incarichi conferiti ai sensi dell’art. 15 septies del d.lgs. 502/1992 La tipologia di incarichi (38) di cui al presente paragrafo rappresenta, tra le fattispecie descritte, quella che verosimilmente più si caratterizza per la prevalente natura discrezionale della procedura di affidamento dell’incarico. A ciò si aggiunga che si tratta di incarico a tempo determinato attribuito al di fuori delle procedure ordinarie di reclutamento del personale, seppure nei limiti previsti dalla normativa vigente e nel rispetto dei vincoli dei tetti di spesa. A tale fattispecie si è fatto un progressivo diffuso ricorso negli ultimi anni da parte delle aziende sanitarie, con particolare riferimento a quelle afferenti alle regioni sottoposte ai c.d. piani di rientro. In tali regioni, infatti, la perdurante applicazione della manovra del blocco totale o parziale del turn over ha determinato, invero, un incremento del ricorso a tali procedure di reclutamento delle professionalità necessarie/carenti, con l’effetto paradossale di eludere la manovra del blocco delle assunzioni e di conferire carattere di instabilità all’organizzazione specie per taluni ruoli apicali oggetto di conferimento ai sensi dell’art. 15 septies del d.lgs. 502/1992. Tuttavia, a fronte del prevalente interesse pubblico del pieno assolvimento dei livelli essenziali di assistenza, sotteso al ricorso a incarichi afferenti a tale tipologia, riconosciuto anche dalla magistratura contabile in sede di controllo (39), non è da escludersi la possibilità di un uso opportunistico e distorto di tale previsione normativa, anche in considerazione del prevalere della natura fiduciaria dell’incarico. Al fine quindi di supportare le organizzazioni sanitarie nell’individuazione di possibili rischi e relative misure di prevenzione, si forniscono anche per questo ambito raccomandazioni volte a massimizzare i livelli di trasparenza delle relative procedure attraverso anche un processo selettivo che dia conto dei criteri e delle scelte operate. Nello specifico, tenuto conto della connotazione di eccezionalità che contraddistingue il ricorso a tale modalità di conferimento di incarichi per l’espletamento di funzioni di particolare rilevanza e di interesse strategico – in quanto ipotesi derogatoria rispetto alle regole generali per le assunzioni – , valgono anche per questa tipologia di incarichi le misure previste sia per gli altri incarichi dirigenziali che per le sostituzioni, ovvero: a) pubblicazione, aggiornamento e monitoraggio periodici delle posizioni/funzioni non ricoperte; b) esplicitazione in dettaglio e relativa pubblicizzazione della motivazione del ricorso alla suddetta procedura derogatoria, compresa la motivazione del mancato espletamento dei concorsi per il reclutamento ordinario e la motivazione alla base della durata dell’incarico; c) esplicitazione, negli atti relativi al procedimento di nomina, della motivazione sottesa alla scelta in relazione ai requisiti professionali e ai criteri di selezione. Inoltre, per le medesime ragioni connesse all’eccezionalità del ricorso a tale tipologia di incarico, le amministrazioni sanitarie destinatarie del presente Piano, dovranno attribuire al soggetto esclusivamente l’unica funzione per la quale è stata attivata la specifica procedura in relazione ai requisiti ed alle caratteristiche per i quali la professionalità è stata scelta. La durata dell’incarico di cui alla lettera b) deve cessare in ogni caso al completamento delle procedure concorsuali per la copertura in via ordinaria della posizione dirigenziale di cui trattasi. In ogni caso, al fine di perseguire i massimi livelli di trasparenza e di imparzialità nell’attribuzione degli incarichi, gli enti del SSN che abbiano funzioni prive di figure dirigenziali, ove si trovino nell’impossibilità documentata di espletare procedure concorsuali per assunzioni a tempo indeterminato, è opportuno che ricorrano a procedure concorsuali per il reclutamento delle relative figure dirigenziali ancorchè a tempo determinato cosi’ da assicurare procedure ad evidenza pubblica, e non alla fattispecie di cui all’art. 15-septies del d.lgs. 502/1992, in considerazione della tipicità e della straordinarietà di questo istituto. 3.2 Personale proveniente dagli ospedali classificati Il personale dirigente proveniente dagli ospedali classificati (40) rientra nei casi disciplinati dall’art. 15 undecies del d.lgs. 502/1992; quest’ultimo costituisce un ambito limitato con accesso diversificato per i dipendenti di strutture private classificate o ospedali classificati che abbiano, a loro volta, acceduto alla struttura classificata o equiparata o con percorso di natura concorsuale oppure con chiamata diretta e che siano successivamente transitati alla struttura pubblica. La normativa vigente e gli orientamenti del Ministero della salute consolidatisi al riguardo, prevedono, con riferimento ai casi disciplinati dall’art. 15 undecies del d.lgs. 502/1992, relativi al personale proveniente dagli ospedali classificati, la possibilità per lo stesso di vedere riconosciute le medesime prerogative dei medici delle strutture pubbliche, quali l’anzianità di servizio o il riconoscimento dei titoli. Ne deriva quindi l’esigenza, dettata da ragioni di coerenza, rispetto agli accennati orientamenti, dell’estensione delle misure indicate nel presente approfondimento con riferimento al personale delle aziende sanitarie pubbliche, anche alle procedure di reclutamento del personale all’interno di questi enti. Rotazione del personale Premessa Nel presente approfondimento si intendono fornire, alle aziende sanitarie e agli altri enti assimilati del SSN, indicazioni generali di tipo organizzativo e di pianificazione strategica, che inducano un percorso virtuoso finalizzato a rendere praticabile la rotazione degli incarichi nell’organizzazione sanitaria attraverso un’adeguata programmazione nei tempi e nelle modalità, secondo criteri che non vadano a detrimento del principio di continuità dell’azione amministrativa. Il ricorso alla rotazione può concorrere, come anche indicato nella parte generale del PNA, insieme alle altre misure di prevenzione, a prevenire e ridurre, evitando il determinarsi di possibili fattori di condizionamento, eventuali eventi corruttivi con particolare riferimento alle aree a più elevato rischio. Per le considerazioni di cui sopra, la rotazione va vista prioritariamente come strumento ordinario di organizzazione ed utilizzo ottimale delle risorse umane, da non assumere in via emergenziale o con valenza punitiva e, come tale, va accompagnato e sostenuto anche da percorsi di formazione che consentano una riqualificazione professionale. 1. Criticità ed elementi di valutazione In sanità l’applicabilità del principio della rotazione presenta delle criticità peculiari in ragione della specificità delle competenze richieste nello svolgimento delle funzioni apicali. Il settore clinico è sostanzialmente vincolato dal possesso di titoli e competenze specialistiche, ma soprattutto di expertise consolidate, che inducono a considerarlo un ambito in cui la rotazione è di difficile applicabilità. Gli incarichi amministrativi e/o tecnici richiedono anch’essi, in molti casi, competenze tecniche specifiche (ad es., ingegneria clinica, fisica sanitaria, informatica, ecc.), ma anche nel caso di competenze acquisite (si consideri la funzione del responsabile del settore protezione e prevenzione), le figure in grado di svolgere questo compito sono in numero molto limitato all’interno di un’azienda. Anche per quanto attiene il personale dirigenziale, la rotazione dei responsabili dei settori più esposti al rischio di corruzione presenta delle criticità particolari. I dirigenti, infatti, per il tipo di poteri che esercitano e per il fatto di costituire un riferimento per il personale dipendente, sono le figure la cui funzione e azione – ove abusata- può provocare danni consistenti. Si tratta quindi di figure che dovrebbero essere maggiormente soggette a ruotare. Al fine di contemperare l’esigenza della rotazione degli incarichi con quella del mantenimento dei livelli di competenze in un quadro generale di accrescimento delle capacità complessive dell’amministrazione sanitaria, per mettere in atto questa misura occorre preliminarmente individuare le ipotesi in cui è possibile procedere alla rotazione degli incarichi attraverso la puntuale mappatura degli incarichi/funzioni apicali più sensibili (ad esempio quelli relativi a posizioni di governo delle risorse come acquisti, rapporti con il privato accreditato, convenzioni/autorizzazioni, ecc.), a partire dall’individuazione delle funzioni fungibili e utilizzando tutti gli strumenti disponibili in tema di gestione del personale ed allocazione delle risorse. Le aziende sanitarie dovranno porre in essere le condizioni per reperire più professionalità in grado, di volta in volta, di sostituire quelle in atto incaricate, mediante un processo di pianificazione della rotazione e di una sua graduazione in funzione dei diversi gradi di responsabilità e di accompagnamento attraverso la costruzione di competenze. Presupposto necessario per affrontare questo processo è la ricognizione della geografia organizzativa delle aziende sanitarie, anche con specifico riferimento ai funzionigrammi relativi alle aree da sottoporre a rotazione, in modo da contemperare la concreta efficacia della misura di prevenzione con le esigenze funzionali e organizzative dell’azienda sanitaria, anche in relazione alla necessità di avvalersi, per taluni settori, di professionalità specialistiche. Esistono, tuttavia, diversi aspetti da considerare a seconda che si tratti di personale di area clinica, tecnica e amministrativa e delle altre professioni sanitarie. 1.1 Area clinica Il personale medico è tutto inquadrato nel ruolo dirigente. Le posizioni di maggiore interesse potrebbero essere quelle relative alla direzione di unità operative complesse (di seguito UOC), a valenza dipartimentale (di seguito UOD) e dipartimenti. A parte alcune eccezioni (che dovrebbero ridursi in misura rilevante con l’applicazione del decreto del Ministro della salute 2 aprile 2015, n. 70 «Regolamento recante definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera») le posizioni apicali di Direttore di UOC, le cui funzioni cliniche prevalgono su quelle gestionali, sono assegnate per concorso e sono generalmente infungibili all’interno di una azienda sanitaria. Le posizioni di Capo dipartimento (funzioni prevalentemente gestionali) sono anch’esse assegnate per concorso, seppure la scelta avvenga all’interno di una rosa di idonei: poichè sotto il profilo del requisito soggettivo l’incarico di Capo dipartimento deve essere conferito ad un Dirigente di UOC tra quelli afferenti al dipartimento, è possibile ritenere che tutti i dirigenti di quel dipartimento siano potenzialmente suscettibili di ricoprire a rotazione l’incarico. Altra ipotesi potrebbe essere quella di una rotazione a livello dei dipartimenti di uno stesso territorio, ad esempio provinciale. Nell’ambito delle ASL, i Direttori di distretto e i Direttori medici di presidio, nel caso ci siano più presidi, svolgendo funzioni prevalentemente gestionali e meno clinico-assistenziali, potrebbero essere potenzialmente assoggettabili al processo di rotazione. Altresi’, potrebbe avvenire per i primari di UOC con funzioni analoghe collocate nella rete di presidi ospedalieri della ASL (i problemi in questo caso sono legati alla definizione dei bandi di concorso e alla eventuale contestualità di decadenza dei diversi professionisti). Per le altre figure rimane valido quanto detto in premessa ovvero la necessità di creare le condizioni di expertise per la fungibilità o, in caso contrario, supportare la difficoltà a operare la rotazione con adeguate motivazioni. 1.2 Area tecnica e amministrativa Per il personale di area tecnica e di area amministrativa non esiste una specificità di profilo per ricoprire un incarico apicale, come nel caso dei clinici; tuttavia è fondamentale non perdere una specificità di competenza che deriva dalla formazione e dall’esperienza. La necessità che le aziende sanitarie realizzino in questo ambito le condizioni per la fungibilità attraverso gli accennati processi di pianificazione e di qualificazione professionale per figure, ad esempio, come il capo del personale, il provveditore, il capo dell’ufficio legale comunque denominato (41) muove anche dalla considerazione che, in caso contrario, ovvero una rotazione effettuata in assenza dei presupposti pianificatori ed organizzativi, potrebbe determinare che i dirigenti che non hanno ancora maturato le competenze e l’esperienza diventino eccessivamente dipendenti dall’esperienza consolidata in capo a funzionari esperti. In questi casi, sarebbe opportuno pensare a una rotazione su base territoriale, tra funzioni analoghe, e non solo aziendale. Un’ipotesi alternativa alla rotazione nei casi di competenze infungibili, potrebbe consistere nella c.d. “segregazione di funzioni”. Tale misura, attuabile nei processi decisionali composti da più fasi e livelli (ad esempio nel ciclo degli acquisti, distinguendo le funzioni di programmazione e quella di esecuzione dei contratti), l’applicazione di questo principio risulterebbe efficace per incoraggiare il controllo reciproco. Nei casi di processi decisionali brevi, come, ad esempio, quelli relativi ad attività ispettive, incarichi legali, incarichi all’interno di commissioni di selezione ecc., si ritengono applicabili misure di rotazione da attuarsi anche all’interno di albi opportunamente istituiti. 1.3 Altre professioni sanitarie Per alcune professioni sanitarie, come ad esempio i farmacisti e le professioni infermieristiche con funzioni di responsabilità e di coordinamento, il cui ruolo è strategico all’interno dell’organizzazione in quanto a gestione di risorse, costituendo gli stessi un anello determinante nella catena del processo decisionale (relativo ad esempio all’introduzione di farmaci e di dispositivi medici nella pratica clinica ed assistenziale), l’applicazione del principio della rotazione si rivela opportuno e presenta margini di possibile applicazione. In questo importante ambito professionale, infatti, la maturazione di expertise per settori specifici se da un lato può richiedere un periodo di tempo necessario per l’acquisizione della piena autonomia nell’esercizio della funzione, per altro verso, il meccanismo della rotazione, attuato attraverso gli adeguati strumenti di pianificazione e di graduazione delle competenze in proporzione ai livelli di responsabilità attribuiti, come ad esempio la previsione di periodi di affiancamento e di formazione specialistica per settore, consente di valorizzare il capitale professionale disponibile anche ai fini della valutazione delle performance individuali e dell’intera organizzazione. 2. Indicazioni generali e ulteriori Pur nel rispetto del principio di autonomia/responsabilità che caratterizza il sistema aziendale e i suoi sottosistemi, il principio della rotazione deve comunque essere un obiettivo effettivo, documentabile e pertanto verificabile. La rotazione va quindi vista come una condizione prospettica da costruire attraverso la messa a punto di meccanismi aziendali orientati verso questa direzione (es. pianificazione pluriennale delle esigenze formative attraverso piani mirati a contrastare le tendenze di esclusività delle competenze e a favorire l’intercambiabilità) e collegati ai sistemi di gestione interni all’azienda sanitaria attraverso, a titolo indicativo ma non esaustivo: – valutazione delle performance; – analisi dei potenziali delle risorse umane ovvero del “capitale professionale effettivo” e non quello legato alla rigida attribuzione delle funzioni. La rotazione degli incarichi dovrebbe riguardare anche il personale non dirigenziale, specie se preposto ad attività afferenti alle aree maggiormente sensibili al rischio di corruzione. È opportuno definire, in ogni caso, gli ambiti di intervento delle misure di rotazione ed individuare i settori che possono essere “delocalizzati” rispetto all’azienda e con quali caratteristiche, avendo a riferimento anche gli obiettivi delle unità operative. In questo senso, altri strumenti per applicare il principio della rotazione possono ricercarsi, da parte del management delle aziende sanitarie, nella previsione di modelli organizzativi anche di tipo interdipartimentale e/o nella ottimizzazione dell’impiego dei professionisti resisi disponibili per effetto, ad esempio, di processi di accorpamento in attuazione del d.m. 70/2015 o anche nella definizione di accordi interaziendali. È necessario, in ogni caso, definire sistemi di monitoraggio strutturati ed espliciti per evitare il verificarsi del rischio di condizionamenti e/o comportamenti corruttivi, avendo cura di prevedere il collegamento con il sistema di valutazione della performance, attraverso l’indicazione di obiettivi volti anche allo sviluppo di competenze trasversali. È importante che le aziende e gli altri enti del SSN ripensino quindi ai propri modelli organizzativi per il governo del sistema anche a livello interaziendale e/o di bacino, specie per alcune aree come, ad esempio, ingegneria clinica, informatica con rotazione delle responsabilita affidate ai dirigenti aziendali, secondo logiche di sviluppo orizzontali di tipo dipartimentale e interdipartimentale, anche identificando livelli di responsabilità intermedi e superando il concetto di rigida attribuzione delle funzioni. Rapporti con i soggetti erogatori Premessa L’ambito dei rapporti tra le regioni/aziende sanitarie con gli erogatori privati di attività sanitarie si configura, nel servizio sanitario, tra le aree di “rischio specifiche” di cui alla determinazione ANAC n. 12/2015 (42). Nella citata determinazione la “specificità” del rischio in questo settore veniva strettamente connessa alla fase contrattuale con i privati accreditati che erogano prestazioni per conto del SSN. Nel presente approfondimento, il PNA intende richiamare l’attenzione delle regioni e delle aziende sanitarie su tutte le singole fasi del processo che conduce dall’autorizzazione all’accreditamento istituzionale, a partire dall’autorizzazione all’esercizio (43) fino alla stipula dei contratti. Si forniscono al riguardo possibili ulteriori misure organizzative da introdurre per prevenire fattori distorsivi e/o condotte devianti rispetto al perseguimento dell’interesse pubblico generale, favorite anche dalla carente o assente trasparenza delle procedure autorizzative e/o dalla mancata standardizzazione degli strumenti e dei metodi nella conduzione, ad esempio, delle attività negoziali e/o nell’esecuzione delle attività ispettive. A tal fine, per ciascuna fase del procedimento, disciplinato rispettivamente dagli artt. 8-bis, 8-ter, 8-quater e 8-quinquies del d.lgs. 502/1992 e s.m.i. vengono indicate, in relazione ad eventuali eventi rischiosi, specifiche misure ulteriori che, fatte salve le singole discipline regionali, ove esistenti, sono orientate a privilegiare il massimo livello di trasparenza dei processi e delle procedure sia nella fase di redazione degli atti che in quella della pubblicazione degli stessi. Attesa la particolare differenziazione delle discipline e delle prassi regionali/aziendali per le fasi di rilascio delle autorizzazioni all’esercizio e di accreditamento istituzionale, indicazioni più specifiche vengono proposte con particolare riguardo al tema delle verifiche e dei controlli sui requisiti di autorizzazione e di accreditamento, nonchè alla fase di stipula e di esecuzione dei contratti. L’esigenza di conferire maggiore omogeneità a questo settore sembra porsi, infatti, con più evidenza proprio nelle attività di contrattazione con gli erogatori privati accreditati; in questo ambito è possibile, sulla base anche delle buone prassi già consolidate e delle risultanze di una rilevazione ad hoc operata dal Ministero della salute, fornire già in questa sede delle prime indicazioni generali e comuni. Il presente approfondimento contiene pertanto alcune prime indicazioni su misure operative comuni a regioni ed aziende per ciascuna fase del procedimento di cui ai punti successivi, ivi compresa la fase contrattuale. 1. Autorizzazione all’esercizio In relazione al primo dei momenti in cui si articola il rapporto con i soggetti privati, ovvero quello dell’autorizzazione, elemento di valutazione è senza dubbio la determinazione del fabbisogno, intesa come strumento di quantificazione orientativa del mercato sanitario scaturente dall’analisi della domanda. Già nell’Aggiornamento 2015 al PNA l’Autorità ha fornito indicazioni in relazione a possibili rischi connessi ai due differenti casi in cui l’atto autorizzativo sia o meno legato all’analisi del fabbisogno. Nel caso in cui venisse determinato, sulla base del fabbisogno, un tetto massimo di autorizzazioni rilasciabili, occorrerebbe prevenire il rischio di possibili pressioni finalizzate a includere un soggetto nel numero chiuso. Nel caso in cui l’analisi del fabbisogno avesse invece un rilievo meramente orientativo – soluzione quest’ultima che appare più aderente ai principi comunitari e costituzionali – i rischi si incentrerebbero esclusivamente sul possesso dei requisiti. Occorre pertanto, in ogni caso, introdurre misure di prevenzione che prendano in considerazione le seguenti indicazioni finalizzate al rafforzamento della trasparenza e delle azioni di controllo. 1.1 Rafforzamento della trasparenza Oltre a quanto previsto dalle disposizioni normative, in particolare, dall’art. 41 del d.lgs. 33/2013 nonchè dalla l. 190/2012, art. 1, co. 15 e 16, lett. a), si considerino anche la pubblicazione, o comunque l’attivazione di misure di trasparenza nel rispetto della normativa sulla tutela della riservatezza, relativamente a: – la struttura del mercato, ovvero dell’atto di determinazione del fabbisogno, con l’evidenza dei territori saturi e di quelli in cui l’offerta risulti carente; – l’elenco dei soggetti autorizzati (da verificare con rispetto normativa tutela della riservatezza); – gli esiti delle attività ispettive di cui al successivo paragrafo. 1.2 Rafforzamento dei controlli – Azioni volte a presidiare il procedimento autorizzativo, indirizzando ed intensificando i controlli sul possesso dei requisiti autorizzativi nella fase pre-autorizzativa e, successivamente, con controlli anche a campione e senza preavviso, sul mantenimento degli stessi, con frequenza almeno annuale. A ciò si aggiunga che, in questa fase, il soggetto è autorizzato a esercitare l’attività sanitaria esclusivamente in regime privatistico e con oneri a carico del cittadino. Ciò non esclude la necessità di controlli anche di qualità a tutela del cittadino stesso e di misure che garantiscano una corretta informazione come, ad esempio, la pubblicazione dei prezzi delle prestazioni. 2. Accreditamento istituzionale Le indicazioni rese per la fase autorizzativa valgono analogamente per la fase dell’accreditamento, nella considerazione peraltro che per accedere a questo riconoscimento “di qualità”, ampliativo della sfera giuridica del soggetto, è d’obbligo l’accertamento del possesso e del mantenimento di requisiti “ulteriori” stabiliti dalla normativa vigente in tema di accreditamento istituzionale. In questa fase, infatti, ai requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi, si aggiungono requisiti di qualità e di organizzazione propri di un livello di qualità adeguato a rendere potenzialmente prestazioni anche per conto del SSN, nella cornice definita dal sistema dei livelli essenziali di assistenza, dai relativi parametri e dagli standard di riferimento stabiliti dalla normativa di settore e dai relativi regolamenti attuativi (44). Una indicazione preliminare va rivolta in questo approfondimento alle regioni affinchè si determinino, in via definitiva, su eventuali situazioni residuali – ove esistenti – di soggetti destinatari di provvedimenti di riconoscimento di accreditamento c.d. “provvisorio”, causando, tali situazioni, un vulnus nella programmazione, a regime, della rete di offerta pubblica e privata in coerenza con il fabbisogno. In questa fase, in analogia alle misure di cui ai § 1.1 e 1.2, è opportuno che le regioni/aziende sanitarie pongano in essere le azioni di seguito indicate. 2.1 Rafforzamento della trasparenza Oltre a quanto previsto dalle disposizioni normative, in particolare, dall’art. 41 del d.lgs. 33/2013 nonchè dalla l. 190/2012, art. 1, co. 15 e 16, lett. a), si considerino anche la pubblicazione, o comunque l’attivazione di misure di trasparenza nel rispetto della normativa sulla tutela della riservatezza, relativamente a: – la struttura del mercato, ovvero dell’atto di determinazione del fabbisogno, con l’evidenza dei territori saturi e di quelli in cui l’offerta risulti carente; – la pubblicazione dell’elenco dei soggetti autorizzati; – gli esiti delle attività ispettive di cui al successivo paragrafo. 2.2 Rafforzamento dei controlli Oltre ai controlli ordinari sui requisiti, si suggerisce la definizione di un piano di controlli concomitanti da rendere oggetto di misura di prevenzione ulteriore all’interno dei PTCP, ove siano indicati: – il numero minimo dei controlli che, a campione e senza preavviso, si intendono effettuare; – i criteri di scelta delle strutture da sottoporre a controllo; – le modalità di conduzione dei controlli, ad esempio con riferimento alla periodicità (almeno annuale), alla composizione dei team ispettivi etc., avuto riguardo, in quest’ultimo caso, a prevedere team a composizione mista con personale proveniente da aziende diverse da quelle di competenza territoriale cui afferisce il soggetto sottoposto a controllo, anche nella forma di accordi tra aziende sanitarie confinanti. Per la composizione di team ispettivi si richiamano altresi’ le indicazioni già fornite dall’Autorità in relazione al rispetto dei principi di rotazione e di insussistenza di conflitto di interessi. Inoltre, per consentire alle aziende sanitarie di poter disporre di personale sufficiente per l’effettuazione di controlli si suggerisce la sottoscrizione di intese con la Guardia di Finanza o con altre istituzioni, oltre alle collaborazioni tra aziende sanitarie. 2.3 Altre indicazioni – Previsione all’interno dei provvedimenti di accreditamento, allo scopo di non ingenerare aspettative ed evitare l’insorgere di contenzioso, di una clausola che specifichi che tale provvedimento non determina automaticamente il diritto del privato ad accedere alla fase contrattuale (45) e che lo stesso provvedimento possa essere soggetto a revisione in relazione al mutarsi delle condizioni che ne hanno originato l’adozione, fatti salvi i casi previsti dalla normativa vigente che integrano le ipotesi di sospensione e/o revoca. 3. Accordi/contratti di attività La fase di negoziazione, stipula ed esecuzione dei contratti, costituisce l’ambito nel quale si regolano i rapporti con il privato accreditato chiamato ad erogare prestazioni per conto e a carico del SSN. Si osserva come i contratti in questione differiscano dalla generalità dei contratti pubblici, presentando tuttavia diversi elementi in comune. È opportuno preliminarmente prevedere che la contrattazione sia strutturata in modo trasparente da parte di tutti i soggetti coinvolti, costituendo, tale attività, la fase determinante del rapporto con i soggetti accreditati. In questa fase, infatti, è importante operare i dovuti interventi volti a garantire i livelli di qualità delle prestazioni da rendersi per conto del SSN, anche per evitare i rischi di concorrenza sleale legati, ad esempio, ai casi di offerta di prestazioni “private” allo stesso prezzo del ticket, nonchè, più in generale, all’erogazione di prestazioni che, a parità di costi, rivelino differenti livelli di qualità. Per prevenire tali rischi si richiama la necessità che le aziende sanitarie attuino le misure richiamate ai punti precedenti (come ad esempio, controlli a campione e senza preavviso), anche nella fase di esecuzione dei contratti. Anche sotto questo profilo, laddove, in esito ai controlli, dovessero emergere gravi irregolarità, le aziende dovrebbero promuovere procedimenti di sospensione o revoca del contratto (46) e dell’accreditamento – cosi’ come previsto dalla gran parte della legislazione regionale vigente – anche al fine di consentire un eventuale subentro di altri soggetti aventi i requisiti di legge. 3.1 Misure specifiche per la fase contrattuale • Prevedere meccanismi non automatici di rinnovo del contratto ma legati alle verifica delle performance, anche in termini di risultati e di qualità del servizio offerto, prevedendo anche, in sede di stipula del contratto, che il soggetto si impegni a collaborare con la pubblica amministrazione anche, a titolo indicativo ma non esaustivo, nel sistema di gestione dei tempi e delle liste di attesa, facendo confluire, su richiesta della regione, le proprie agende di prenotazione delle prestazioni specialistiche ambulatoriali nel sistema unico di prenotazione a livello regionale/aziendale nonchè, più in generale, nelle attività ispettive e di controllo da parte della pubblica amministrazione, pena la risoluzione del contratto. • Individuare, in tutte le fasi della contrattazione, il livello su cui insiste la discrezionalità della pubblica amministrazione, al fine di porre le misure più adeguate per la corretta esplicazione dell’attività negoziale. Le misure di prevenzione della corruzione devono invero risultare proporzionate sia al grado di discrezionalità, sia alla dimensione assunta dal privato accreditato in ciascuna regione. A tal riguardo occorre rendere pubblici i criteri di distribuzione delle risorse, nel caso in cui questi ultimi siano definiti a livello aziendale. In considerazione della rilevanza essenzialmente pubblicistica dell’attività svolta dal privato accreditato contrattualizzato con il SSN, si raccomandano inoltre le seguenti misure sia in tema di personale che di acquisti, trattandosi di due ambiti che incidono sui requisiti di accreditamento e quindi sulla qualità dei servizi. In particolare per quanto attiene il personale: • prevedere, nei modelli contrattuali definiti a livello regionale, una clausola che impegni il privato accreditato a rispettare e mantenere i requisiti organizzativi nel rispetto della dotazione organica quali-quantitativa prevista per la tipologia di attività sanitaria oggetto di accreditamento e di contrattualizzazione. Per quanto attiene gli acquisti: • prevedere, nei modelli contrattuali definiti a livello regionale, l’impegno del soggetto privato accreditato e contrattualizzato ad assicurare livelli di qualità delle tecnologie e dei presidi sanitari che garantiscano i parametri di qualità, efficienza e sicurezza delle attività sanitarie. Al fine di conferire maggiore cogenza agli obblighi in questione, le aziende valuteranno l’opportunità di inserire nei contratti con i privati accreditati la clausola di salvaguardia per cui, la mancata sottoscrizione o il mancato rispetto di tali obblighi, costituiscano causa di sospensione dell’accreditamento. Per uniformare la strutturazione di base dei modelli contrattuali adottati dalle regioni/aziende, si sta valutando l’ipotesi di emanare linee guida recanti gli elementi essenziali da ricomprendere all’interno degli accordi contrattuali, avuto riguardo – a titolo di esempio indicativo ma non esaustivo – dell’ente competente alla stipula e dalla gestione dei contratti, della composizione del budget (tetti di spesa) e dell’eventuale presenza di accordi di confine per la gestione e la programmazione della mobilità attiva per le prestazioni rese nei confronti dei pazienti extraregionali e della mobilità passiva. 4. Valutazione del fabbisogno Rispetto al tema del fabbisogno quale fattore di orientamento delle scelte in ambito sanitario incluse quelle legate all’ingresso/mantenimento dei soggetti privati all’interno del sistema di offerta, si raccomanda alle aziende sanitarie e, ove non delegate dalle regioni, a queste ultime, di: – rendere evidenti i criteri e i processi adottati in ambito regionale/aziendale per l’analisi dei fabbisogni con particolare riguardo anche ai “riadattamenti” dell’organizzazione della rete di offerta e del relativo sistema di relazioni, nei casi di variazioni degli stessi fabbisogni cui adeguare gli strumenti di programmazione. Si suggerisce a tal riguardo di valutare, in relazione all’entità della variazione determinata da una contrazione o da un aumento del fabbisogno, un confronto comparativo e trasparente con i soggetti accreditati; – tenere conto, nella definizione dei criteri per la distribuzione delle risorse ai soggetti accreditati e contrattualizzati, anche delle performance clinico-assistenziali, in termini di volumi ed esiti, delle prestazioni rese. Ulteriori temi di approfondimento 1. Misure per l’alienazione degli immobili In riferimento alla cessione di immobili a terzi da parte delle aziende sanitarie, anche provenienti da atti di liberalità (donazioni e successioni) o comunque acquisiti dalle aziende, è possibile prefigurare possibili eventi rischiosi riconducibili alla valorizzazione del patrimonio da alienare e alle procedure con le quali viene effettuata la vendita o la locazione (o anche dal loro mancato utilizzo o messa a rendita). Non è da trascurare anche il rischio del progressivo intenzionale deterioramento del bene per ridurne il valore commerciale. In altri termini, se parte del patrimonio non viene direttamente utilizzato per finalità proprie delle aziende sanitarie (per attività assistenziali o comunque per attività amministrative e gestionali aziendali) o non sono comunque previste modalità di utilizzazione di questi beni all’interno di un piano industriale, è auspicabile prevedere forme di messa a reddito di tale patrimonio (ad es. attraverso la cessione o la locazione) o comunque un utilizzo per finalità proprie dell’azienda anche a livello interaziendale (es. per l’attività libero professionale, uffici amministrativi, ecc.). In questo contesto, come già evidenziato nell’Aggiornamento 2015 al PNA, oltre agli obblighi di trasparenza previsti dall’art. 30 del d.lgs. 33/2013, anche come modificato dal d.lgs. 97/2016, ovvero la pubblicazione delle informazioni identificative degli immobili (ad es. tipo, dimensione, localizzazione, valore) a qualsiasi titolo posseduti o detenuti (ad es. proprietà e altri diritti reali, concessione ecc.), dei canoni di locazione o di affitto versati o percepiti dalle amministrazioni, sarebbe opportuno che le aziende sanitarie e gli altri enti assimilati rendessero disponibili anche le seguenti tipologie di informazioni: a) modalità di messa a reddito di ciascun immobile, ovvero vendita o locazione con le relative procedure e/o altre modalità di utilizzo (es. interaziendale con condivisione di risorse); b) patrimonio non utilizzato per finalità istituzionali o di cui non è previsto un utilizzo futuro, nell’ambito di piani di sviluppo aziendali: tipo, dimensione, localizzazione, valore; c) esito delle procedure di dismissione/locazione; d) redditività delle procedure ovvero valore, prezzo di vendita e ricavato. Il RPCT è tenuto a vigilare sull’attuazione delle misure e a segnalare al management aziendale anomalie risultanti dall’analisi degli indicatori di rischio come, ad esempio: la consistenza del patrimonio non utilizzato per finalità istituzionali; la possibile anomala compresenza di fitti passivi e immobili in locazione; la significatività degli scostamenti tra valore, prezzo di vendita e ricavato nelle procedure di dismissione/locazione. È altresi’ importante che le regioni completino il censimento del patrimonio non utilizzato a fini istituzionali affinchè questo possa essere valorizzato dalle competenti agenzie del territorio. 2. Sperimentazioni cliniche. Proposta di ripartizione dei proventi derivanti da sperimentazioni cliniche I proventi derivanti alle aziende sanitarie a seguito di sperimentazioni cliniche, specie nel caso di studi clinici randomizzati interventistici con farmaci che devono essere introdotti sul mercato, possono assumere una consistenza molto rilevante (di decine di milioni euro per anno in aziende di grandi dimensioni e di elevato richiamo). Per questo motivo e per le cointeressenze che possono esserci tra le ditte farmaceutiche e gli sperimentatori, si tratta di un’attività a rischio corruttivo. L’azione dei Comitati Etici (di seguito CE), volta ad accertare la scientificità e la eticità del protocollo di studio, non fornisce specifiche garanzie al riguardo. Al fine di gestire, in ottica di prevenzione della corruzione, la discrezionalità degli sperimentatori di attribuzione (e “auto-attribuzione”) dei proventi, è opportuno che ogni azienda sanitaria integri il regolamento del CE con un disciplinare che indichi le modalità di ripartizione dei proventi, detratti i costi da sostenersi per la conduzione della sperimentazione e l’overhead dovuto all’azienda per l’impegno degli uffici addetti alle pratiche amministrative ed il coordinamento generale. È inoltre opportuno adottare un sistema di verifica dei conflitti di interesse dei CE tale da identificare, oltre l’eventuale conflitto di interesse al momento della nomina, anche la sua eventuale sussistenza al momento della presentazione e valutazione della sperimentazione clinica. A monte della stipula del contratto per la sperimentazione, è opportuno individuare con esattezza l’effettivo titolare dell’impresa, soprattutto ove il contratto venga stipulato con soggetti aventi sede in Stati esteri e/o a bassa fiscalità, anche al fine di verificare l’esistenza di indicatori di rischio secondo la normativa antiriciclaggio. Va inoltre richiamata l’attenzione sull’opportunità di prevedere, nei regolamenti aziendali, un congruo lasso di tempo tra il finanziamento per la ricerca e la cessazione di un contratto a titolo oneroso con il soggetto che finanzia la ricerca, o sue imprese controllate. 2.1 Criteri per la ripartizione dei proventi Una possibile sequenza logica per pervenire a una procedura di ripartizione dei proventi è la seguente: a) detrarre le spese da sostenersi (costi diretti della sperimentazione). Tali spese possono includere: – costi per accertamenti di laboratorio o strumentali, aggiuntivi rispetto a quelli previsti dalla pratica assistenziale corrente; – costi per la raccolta/spedizione di materiali biologici; – costi per la gestione separata dei farmaci in sperimentazione; – costi di materiale di consumo o di materiale inventariabile necessario per la sperimentazione (ove non forniti direttamente dallo sponsor); – rimborsi ai pazienti; – spese per acquisizione di collaborazioni tecnico-professionali finalizzate alla conduzione delle sperimentazioni; – spese di gestione, analisi dei dati, test di laboratorio aggiuntivi, spese di spedizione dei materiali; – spese di formazione/aggiornamento del personale coinvolto nelle sperimentazioni; – spese di acquisizione di apparecchiature tecnico scientifiche; b) ripartire il ricavo netto secondo criteri prestabiliti e trasparenti. Le somme destinate al personale, inoltre, dovrebbero confluire nei fondi aziendali ed essere evidenziate nel conto annuale; è opportuno, al riguardo, che i relativi criteri di ripartizione siano concordati con le organizzazioni sindacali. In quest’ambito specifico è auspicabile che le aziende sanitarie adottino un regolamento che disciplini le modalità di distribuzione dei ricavi netti provenienti dalle sperimentazioni, improntato ai principi di equità, efficienza e vantaggio per la pubblica amministrazione. La scelta è comunque rimandata alle singole direzioni aziendali che sono chiamate all’obbligo di definire tali modalità di ripartizione, rendendole trasparenti, al fine di garantire una equità di fruizione dei proventi derivanti dalle sperimentazioni cliniche tra tutto il personale che vi partecipa attivamente. Di norma, il personale medico e quello infermieristico e tecnico dovrebbero svolgere l’attività di sperimentazione clinica al di fuori dell’orario di servizio. Questa regola sembrerebbe essere ampiamente disattesa, anche perchè tale attività si intercala naturalmente con quella svolta in attività istituzionale. A tal fine, le aziende sanitarie potrebbero individuare, ad esempio, dei “tempi standard” necessari per lo svolgimento dell’attività di sperimentazione, calcolati sul numero di pazienti arruolati e sulle procedure (assistenziali, diagnostiche) cui sono sottoposti, da aggiungere al debito orario contrattuale. Il RPCT dovrebbe effettuare il monitoraggio sull’effettiva implementazione delle suddette misure e, in particolare, l’adozione e implementazione del regolamento sulla ripartizione dei proventi, nonchè l’elaborazione di appositi indicatori di rischio come, ad esempio, il rapporto tra i volumi di attività svolta nell’ambito delle sperimentazioni cliniche e l’attività istituzionale. 3. Comodati d’uso/ valutazione “in prova” Un’attenzione particolare va rivolta ad alcune particolari modalità di ingresso delle tecnologie all’interno dell’organizzazione sanitaria, diverse rispetto agli ordinari canali di approvvigionamento. In questa fase di transizione verso le procedure di approvvigionamento aggregate in capo alle centrali di committenza/soggetti aggregatori, sulla base di quanto previsto dalla recente normativa per il settore degli acquisti (legge di stabilità 2016), è possibile che il ricorso a tali modalità diventi sempre più elevato. A partire, quindi, dalle misure di rafforzamento della trasparenza come, ad esempio, la pubblicazione dei dati inerenti le relative procedure aziendali autorizzative, si rende possibile la conoscenza interna ed esterna dei comportamenti assunti dalle aziende stesse in questo delicato ambito. In tal senso potrebbe configurarsi pertanto come una misura ulteriore di trasparenza l’integrazione, da parte delle aziende sanitarie, delle informazioni sul sito istituzionale relative alle tecnologie introdotte attraverso le predette modalità, prevedendo il seguente set minimo di dati: a) il richiedente/l’utilizzatore; b) la tipologia della tecnologia; c) gli estremi dell’autorizzazione della direzione sanitaria; d) la durata/termini di scadenza; e) il valore economico della tecnologia; f) gli eventuali costi per l’azienda sanitaria correlati all’utilizzo della tecnologia (es. materiali di consumo). Riguardo a quest’ultimo punto, nel caso in cui l’analisi della proposta di comodato evidenzi costi a carico dell’azienda sanitaria, connessi all’utilizzo del bene, la stessa non dovrebbe essere accettata ove preveda corrispettivi economici in favore del soggetto comodante o comunque di un soggetto predeterminato, in quanto tale vincolo attribuirebbe all’intera operazione la natura di contratto di appalto, che dovrebbe essere pertanto gestito secondo le ordinarie procedure di gara. La medesima precisazione va riferita anche alle “donazioni” e/o alle “prove dimostrative”. Per queste ultime, qualsiasi onere economico (inclusi materiali di consumo) deve essere totalmente a carico del soggetto che propone all’azienda sanitaria la prova dimostrativa. L’insieme dei dati sopra riportati, a vari livelli di aggregazione, potrà costituire un database delle apparecchiature “in prova” da cui sia possibile effettuare i collegamenti con le successive modalità con le quali eventualmente le stesse tecnologie vengono acquisite dalle aziende. Pertanto, il RPCT dovrebbe utilizzare tali informazioni anche al fine di elaborare possibili indicatori di rischio come, ad esempio, la percentuale (numero e/o valore) delle apparecchiature in prova/comodati d’uso che si trasforma in acquisto, anche in relazione al totale della tecnologia acquisita dall’azienda. 4. Ulteriori misure per la trasparenza, il governo e la gestione dei tempi e delle liste di attesa e dell’attività libero professionale intra moenia Quest’area, già ritenuta di prioritaria importanza nell’Aggiornamento 2015 al PNA, viene richiamata anche in questo approfondimento in considerazione della disomogeneità dei contesti regionali nel governo dei tempi di attesa, in relazione anche al rapporto tra attività istituzionale e libero professionale e al fatto che i comportamenti opportunistici e i rischi corruttivi in questo settore si sostanziano in disparità di trattamento nei confronti dell’utente finale. L’esigenza è quella di integrare le misure di prevenzione già previste nel precedente Aggiornamento 2015 al PNA, con particolare riferimento alle attività in ALPI (47), con interventi mirati in tema di liste di attesa per le prestazioni rese in attività istituzionale, a partire dal rafforzamento della trasparenza nel sistema di accesso alle prestazioni specialistiche ambulatoriali (diagnostiche e terapeutiche), avuto riguardo del trattamento dei dati sensibili. Un’importante modifica è stata introdotta dal d.lgs. 97/2016, art. 33, che, intervenendo sulle disposizioni in materia di trasparenza con riferimento alle liste di attesa contenute all’art. 41, co. 6, d.lgs. 33/2013, ha previsto l’obbligo di pubblicazione anche dei criteri di formazione delle stesse liste. Inoltre, a titolo esemplificativo ma non esaustivo sono indicate, con riferimento all’accesso del paziente al sistema di prenotazione delle prestazioni sanitarie, alcuni possibili eventi rischiosi con le relative misure di prevenzione. In relazione al rischio di violazione del diritto di libera scelta del paziente, con induzione all’accesso per prestazioni sanitarie in ALPI a seguito di incompleta o errata indicazione delle modalità e dei tempi di accesso alla fruizione delle analoghe prestazioni in regime di attività istituzionale, le seguenti misure, che già costituiscono condizioni imprescindibili di buona amministrazione e di efficienza organizzativa, si rivelano efficaci per la gestione trasparente delle liste di prenotazione e per il governo dei tempi di attesa (con conseguenti effetti diretti sulla percezione della qualità del servizio da parte dei cittadini e sull’efficacia degli interventi sanitari): • informatizzazione e pubblicazione, in apposita sezione del sito web aziendale di immediata visibilità, delle agende di prenotazione delle aziende sanitarie; • separazione dei percorsi interni di accesso alle prenotazioni tra attività istituzionale e attività libero professionale intramoenia (ALPI); • unificazione del sistema di gestione delle agende di prenotazione nell’ambito del Centro Unico di Prenotazione (CUP) su base regionale o almeno provinciale, facilmente accessibile (es. call center, sportelli aziendali, rete delle farmacie, ecc.) con l’integrazione tra pubblico e privato almeno per quanto attiene la prima visita e i follow up successivi; • utilizzo delle classi di priorità clinica per l’accesso alle liste di attesa differenziate per tempo di attesa (specificando se si tratta di prima visita o controllo). Tale obbligo, già disciplinato con decreti ministeriali e da specifici accordi Stato-Regioni, necessita tuttavia di essere monitorato ed implementato per evitare il rischio di classificazioni errate e/o opportunistiche. In tal senso sono già state implementate in varie aziende sanitarie italiane esperienze trasferibili che prevedono il coinvolgimento dei professionisti per aree cliniche, come per esempio il modello dei raggruppamenti di attesa omogenei (R.A.O.), un’esperienza di codici di priorità caratterizzata dal coinvolgimento di medici di medicina generale, pediatri di libera scelta e specialisti ospedalieri. Un ulteriore rischio può essere legato al fenomeno del drop out, ovvero al caso delle prenotazioni regolarmente raccolte dal CUP ma che non vengono eseguite a causa dell’assenza del soggetto che ha prenotato. Al fine di evitare opportunistici allungamenti dei tempi di attesa in attività condotta in regime istituzionale, possono essere utilizzati diversi strumenti gestionali quali, ad esempio, recall, SMS, reminder, pre-appuntamento, per verificare la reale consistenza delle liste di attesa. A tale scopo, può essere efficace prevedere a livello regionale e/o aziendale l’obbligo di disdetta delle prenotazioni di prestazioni specialistiche ambulatoriali, disciplinando i casi in cui sia possibile giustificare la mancata disdetta per impedimenti oggettivi e documentati (48). Altre misure specifiche possono riguardare la previsione, all’interno dei siti web aziendali, di una sezione dedicata ai reclami da parte dei pazienti con modalità facilmente accessibili, nonchè un sistema di reporting e di monitoraggio degli stessi da parte del RPCT. Va evidenziato che le suddette misure, poichè presuppongono il pieno rispetto degli obblighi di legge vigenti in tema di liste di attesa, sono da considerarsi esemplificative delle possibili strategie ulteriori che le regioni e le aziende sanitarie possono porre in essere per il governo dei tempi di attesa delle prestazioni sanitarie, anche in termini di miglioramento dei piani adottati in conformità al Piano nazionale di governo delle liste di attesa, ai sensi dell’intesa Stato-Regioni del 28 ottobre 2010, di cui all’art. 1, co. 280, della legge 23 dicembre 2005, n. 266. Il Presidente Raffaele Cantone NOTE: (1) ANCI, Assonime, Autorità per la protezione dei dati personali, Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, Avvocatura Generale dello Stato, Banca d’Italia, CGIL, CISAL, CISL, CNA, CNCU, CONFAPI, Confartigianato, Confcommercio, Conferenza dei Presidenti delle Assemblee Legislative delle Regioni e delle Province Autonome, Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, Confesercenti, Confimpresa, Confindustria, Confsal, Consiglio di Stato, Corte dei Conti, Dipartimento per gli affari di giustizia, Fondo monetario internazionale, Libera Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, Ministro del lavoro e delle politiche sociali, Ministro della difesa, Ministro della giustizia, Ministro della salute, Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali, Ministro dell’economia e delle finanze, Ministro dell’interno, Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, Ministro dello sviluppo economico, Ministro per gli affari regionali e le autonomie, Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, Ministro per le riforme costituzionali e rapporti con il Parlamento, Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, OCSE (Responsabile della Divisione per l’integrità del settore pubblico e Direttore Affari giuridici), Scuola Nazionale dell’Amministrazione, Segretariato del GRECO – Consiglio d’Europa, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Transparency International Italia, UGL, UIL, Unità di informazione finanziaria per l’Italia, UPI, World Bank. (2) Il parere è disponibile sul sito http://www.unificata.it (3) Corruption-in-Public-Procurement pubblicato il 4 maggio 2016. (4) In particolare, all’art. 2, co. 1, lettera m) dello schema di testo unico, sono definite «società a controllo pubblico: le società in cui una o più amministrazioni pubbliche esercitano poteri di controllo ai sensi della lettera b)», che, a sua volta, definisce «controllo: la situazione descritta nell’art. 2359 del codice civile. Il controllo può sussistere anche quando, in applicazione di norme di legge o statutarie o di patti parasociali, per le decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all’attività sociale è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo». (5) All’art. 2, co.1, lett. o) dello schema di testo unico citato si specifica che sono società quotate «le società a partecipazione pubblica che emettono azioni quotate in mercati regolamentati; le società che hanno emesso, alla data del 31 dicembre 2015, strumenti finanziari, diversi dalle azioni, quotati in mercati regolamentati; le società partecipate dalle une o dalle altre, salvo che le stesse siano anche controllate o partecipate da amministrazioni pubbliche». (6) Pubblicato in GU SG n. 233 del 7.10.2015. (7) Istituita ai sensi dell’art. 33-ter del decreto legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221 (cfr. Comunicati del Presidente AVCP del 16 maggio e del 28 ottobre 2013). (8) Cfr. art. 3, co. 1-ter del d.lgs. 33/2013 introdotto dall’art. 4 del d.lgs. 97/2016. (9) In particolare nelle «Linee guida per l’assegnazione degli incarichi di Posizione Organizzativa e di Alta Professionalità» del Comune viene specificato che «l’aspettativa dell’Ente nella modalità di assegnazione degli incarichi è che lo stesso incarico non sia rinnovato per più di una volta, per due finalità: da un lato favorire la rotazione, che oltre ai benefici in punto anticorruzione, ha dei vantaggi sul piano della contaminazione organizzativa e scambio di esperienze interne (se una PO è valida ed è stata confermata già una volta nella stessa posizione, può fare bene anche in una posizione affine); dall’altro mette in moto l’organizzazione e offre ciclicamente opportunità di crescita e sviluppo per chi ne ha le capacità e ha voglia di misurarsi con sfide importanti». (10) Cfr. orientamento ANAC in materia di anticorruzione n. 113 del 18 novembre 2014. (11) L’art. 55-ter, co. 1, d.lgs. 165/2001 dispone, altresi’, che il procedimento disciplinare avente «ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l’autorità giudiziaria è proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale», fatta salva la sospensione in caso di sussistenza dei presupposti ivi previsti e fatta salva, in ogni caso, «la possibilità di adottare la sospensione o altri strumenti cautelari nei confronti del dipendente». (12) Norma che, oltre ai citati reati, ricomprende un numero molto rilevante di gravi delitti, tra cui l’associazione mafiosa, quella finalizzata al traffico di stupefacenti o di armi, i reati associativi finalizzati al compimento di delitti anche tentati contro la fede pubblica, contro la libertà individuale. (13) Il campione analizzato è costituito da 39 comuni minori o uguali a 5.000 abitanti; 21 con popolazione tra i 5.000 fino a 15.000; 3 unioni di comuni. (14) Con la sentenza 26 marzo 2015 n. 50, la Corte costituzionale ha affermato che le unioni di comuni, «risolvendosi in forme istituzionali di associazione tra Comuni per l’esercizio congiunto di funzioni o servizi di loro competenza» non costituiscono, al di là dell’impropria definizione sub co. 4 dell’art. 1, un ente territoriale ulteriore e diverso rispetto all’ente Comune; le stesse, pertanto, rientrano, nell’area di competenza statale sub art. 117, co. 2, lett. p) della Costituzione, e non sono, di conseguenza, attratte nell’ambito di competenza residuale di cui al co. 4 dello stesso art. 117. (15) Si rinvia, in merito, alla FAQ 3.3 ANAC in materia di anticorruzione. (16) Cfr. Comunicato del Presidente dell’Autorità del 16 dicembre 2015 «Riordino degli enti locali ai sensi della legge 7 aprile 2014, n. 56 – funzioni delle province – trasferimento – adozione del PTPC 2016-2018». (17) www.benitutelati.it/verifica.html (18) La materia trova fonte giuridica in una risalente regolamentazione, in parte trasfusa ed integrata dal Capo V del Codice dei beni culturali come aggiornato con il d.lgs. 62/2008. La disciplina che regola la materia della esportazione e della circolazione delle opere d’arte in Italia è contenuta nelle seguente disposizioni: regio decreto 30 gennaio 1913, n. 363, recante «Regolamento per l’esecuzione delle leggi 20 giugno 1909, n. 364 e 23 giugno 1912, n. 668, relative alle antichità e alle belle arti», a cui ci si deve riferire per i certificati di importazione o spedizione di opere d’arte dall’estero (CEE ed Extra-CEE); legge 1 giugno 1939, n. 1089, in particolare sezione 1, artt. 35-42; legge 30 marzo 1998, n. 88, artt. 1-26; decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, «Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell’articolo 1 della legge 8 ottobre, n. 352», in particolare il capo IV sezione I artt. 65-70 e sezione II artt. 71-84; d.lgs. 42/2004 ed in particolare gli artt. 65-72; infine il regolamento (CEE), n. 3911 del Consiglio, del 9 dicembre 1992, sostituito dal regolamento (CE) n. 116 del Consiglio, del 18 dicembre 2008 relativo a «Esportazione di beni culturali». (19) Va ricordato, infatti, che la domanda del privato può anche essere funzionale in via esclusiva alla valutazione e stima del valore venale del bene con conseguente qualifica di esportabilità, senza che lo stesso ne abbia stabilito la destinazione, che è specificabile nel successivo triennio. (20) Cfr. Corte costituzionale, sentenza 1-7 ottobre 2003, n. 307; sentenza 10-19 dicembre 2003, n. 362; sentenza 24-28 giugno 2004, n. 196. (21) Si rinvia, al riguardo, all’Aggiornamento 2015 al PNA (pp. 10-12). (22) Ibidem (p. 40) con la precisazione che fra gli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (I.R.C.C.S.) di diritto pubblico si intendono ricompresi anche gli enti di ricerca di diritto pubblico comunque denominati (es. INRCA). (23) Aggiornamento 2015 al PNA (p. 40) «Soggetti destinatari dell’approfondimento». (24) La legge 12 febbraio 1968, n. 132 «Enti ospedalieri e assistenza ospedaliera», dedicava due commi del primo articolo agli istituti ed enti ecclesiastici che esercitavano l’assistenza ospedaliera. Il quinto comma manteneva fermo il precedente regime giuridico-amministrativo, che riconosceva l’autonomia a questi enti (fatta salva la vigilanza tecnico-sanitaria spettante al ministero), mentre il sesto comma conferiva ai medesimi, ove in possesso dei requisiti prescritti dalla stessa l. 132/1968 per gli ospedali pubblici, la facoltà di chiedere e il diritto di ottenere che i loro ospedali fossero appunto “classificati” in una delle categorie contemplate dal nuovo ordinamento, attuandone in sostanza una piena equiparazione. In altri termini, la legge citata riconosceva natura pubblica al servizio ospedaliero purchè svolto alle condizioni da essa stessa stabilite (requisiti della struttura, retta di degenza, programmazione, status del personale), a prescindere dalla natura, pubblica o privata, del soggetto che lo espletava. La riforma sanitaria del 1978 ha sostanzialmente confermato questo ordinamento, richiamando che «nulla è innovato alle disposizioni vigenti per quanto concerne il regime giuridico amministrativo» sia degli enti ecclesiastici e dei relativi ospedali classificati, sia degli ospedali acattolici (legge 23 dicembre 1978, n. 833 «Istituzione del servizio sanitario nazionale», articolo 41), salvo che per la vigilanza tecnico-sanitaria (trasferita dal ministero alle Asl) e la “convenzione obbligatoria” da stipulare in conformità a uno schema-tipo. Le «istituzioni sanitarie riconosciute che esercitano l’assistenza pubblica» (sono cosi’ testualmente definiti gli enti ecclesiastici e gli ospedali acattolici nell’articolo 41) «conservano la loro posizione di soggetti attivi nel sistema pubblico dell’assistenza». Anche secondo le due riforme del Servizio sanitario nazionale susseguitesi nel 1992 e nel 1999, «nulla è innovato alla vigente disciplina in materia» (art. 4, co. 12, del d.lgs. 502/92, che il d.lgs. 229/99 ha lasciato invariato). Al contrario, per quanto riguarda gli accordi contrattuali stipulati tra Asl e soggetti accreditati sulla base dei criteri definiti dalla Regione in tema di finanziamento, a partire da quanto stabilito dall’art. 8 quinquies si delinea e si amplia il solco tra pubblici ed equiparati che porta questi ultimi a far parte dell’insieme delle strutture private accreditate. Da ultimo, nel Patto della salute 2010-12 di cui all’Intesa stato-regioni del 3 dicembre 2009 è previsto al primo comma dell’articolo 7: «si conviene, nel rispetto degli obiettivi programmati di finanza pubblica, di stipulare un’intesa ai sensi dell’articolo 8, comma 6, della legge 131 del 2003 in sede di Conferenza Stato-Regioni finalizzata a promuovere una revisione normativa in materia di accreditamento e di remunerazione delle prestazioni sanitarie, anche al fine di tenere conto della particolare funzione degli ospedali religiosi classificati». (25) Aggiornamento 2015 al PNA (pag. 11) «Centralità del RPC». (26) Aggiornamento 2015 al PNA (p. 13) «Ruolo strategico della formazione». (27) L’Aggiornamento 2015 al PNA (p. 44) «Incarichi e nomine» ha approfondito con particolare riguardo il conferimento di incarichi dirigenziali di livello intermedio e, segnatamente, quelli di struttura complessa e gli incarichi ai professionisti esterni, esemplificandone rischi e relative misure. (28) D.lgs. 502/1992, come modificato dal d.l. 158/2012 convertito con modificazioni con l. 189/2012 e art. 27 del CCNL 08.06.2000 I biennio economico, come modificato dall’art. 4 CCNL 06.05.2010, Dirigenza medica e veterinaria (Area IV – medici, veterinari e odontoiatri) e sanitaria (Area III – chimici, fisici, biologi, farmacisti e psicologi). (29) Art. 28, co. 5, CCNL 08.06.2000 – parte normativa quadriennio 1998-2001 e parte economica biennio 1998-1999 – Dirigenza Professionale, Tecnica e Amministrativa (Area III – avvocati, ingegneri, architetti, geologi), tecnica (analisti, statistici, sociologi) e amministrativa (dirigente amministrativo). (30) Art. 15, co. 7 bis del d.lgs. 502/1992(come modificato dal d.l. 158/2012 convertito con modificazioni con l. 189/2012 ; art. 29 del CCNL 8 giugno 2000: «1. Gli incarichi di direzione di struttura complessa sono conferiti con le procedure previste dal DPR 484/1997, nel limite del numero stabilito dall’atto aziendale [.]»; art. 5 del d.p.r. 484/1997; Documento di Linee Guida recante «Criteri generali per il conferimento degli incarichi di direzione di struttura complessa per la dirigenza medica e sanitaria nelle aziende del servizio sanitario nazionale – Linee di indirizzo in applicazione dell’art. 4 del d.l. n. 158 del 2012 convertito nella l. 189/2012» approvato dalla Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome il 13 marzo 2013. (31) Art. 3 sexies del d.lgs. 502/1992. «3. L’incarico di direttore di distretto è attribuito dal direttore generale a un dirigente dell’azienda, che abbia maturato una specifica esperienza nei servizi territoriali e un’adeguata formazione nella loro organizzazione, oppure a un medico convenzionato, ai sensi dell’articolo 8, comma 1, da almeno dieci anni, con contestuale congelamento di un corrispondente posto di organico della dirigenza sanitaria. 4. La legge regionale disciplina gli oggetti di cui agli articoli 3- quater, comma 3, e 3-quinquies, comma 2 e 3, nonchè al comma 3 del presente articolo, nel rispetto dei principi fondamentali desumibili dalle medesime disposizioni; ove la regione non disponga, si applicano le predette disposizioni». (32) Le prassi delle seguenti aziende sanitarie sono confluite nelle indicazioni contenute nell’elencazione del § 1.1.2: Azienda Sanitaria Locale della Provincia di Milano 2; Azienda USL Roma H; Azienda Sanitaria Locale Napoli 3 SUD; Azienda Sanitaria Provinciale di Palermo, Azienda Sanitaria Provinciale di Palermo; Azienda ospedaliero Universitaria Cagliari. (33) Documento del Comitato LEA del marzo 2015 (34) D.M. Salute 2 aprile 2015, n. 70 «Regolamento recante definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera» (GU n.127 del 4-6-2015). (35) Art. 15, co.7 quater, d.lgs. 502/1992 s.m.i. (modificato dal d.l. 158/2012 convertito con modificazioni con l. 189/2012 ; art. 28 del CCNL 08.06.2000 parte normativa quadriennio 1998-2001 e parte economica biennio 1998-1999: «Gli incarichi di cui trattasi, sono conferiti, nei limiti del numero stabilito nell’atto aziendale, in presenza delle seguenti condizioni: a) aver maturato cinque anni di attività; b) aver conseguito la valutazione positiva del collegio tecnico; c) su proposta del responsabile della struttura di afferenza con atto scritto e motivato». In particolare, il conferimento di tali incarichi è rimandato alla predeterminazione di criteri generali da parte delle aziende che, nel rispetto dei principi stabiliti dal co. 6 della riferita disposizione, sono oggetto di concertazione sindacale (co. 8). (36) Art. 15, co. 4, II periodo, d.lgs. 502/1992 s.m.i.; art. 28 C.C.N.L. – 8 giugno 2000 «Dirigenza medica e veterinaria – parte normativa quadriennio 1998 – 2001 e parte economica biennio 1998 – 1999». (37) Art. 18 CCNL 08.06.2000; art. 38, co. 4, CCNL 10.2.2004. (38) Art. 15 septies del d.lgs. 502/1992. Ai sensi dell’art. 15 septies, co. 1 e 2, del d.lgs. 502/1992.e s.m.i, possono essere conferiti contratti a tempo determinato a professionalità particolarmente qualificate, che non godano del trattamento di quiescenza, entro limiti percentuali prestabiliti, per il conferimento di incarichi dirigenziali di direzione o di alta professionalità. (39) Vedi Relazione sul Rendiconto della Regione siciliana esercizio finanziario 2012 ove, a proposito del ricorso a forme di reclutamento del personale a tempo determinato, si legge «Nelle specifiche pronunce emanate, la Corte ha tuttavia chiarito come tale obbligo di riduzione (dei contratti a tempo determinato) non possa compromettere l’erogazione dei livelli essenziali di assistenza ai cittadini, per cui, nel declinare l’applicazione di tale norma alla specifica realtà degli enti del servizio sanitario regionale, l’Amministrazione dovrà necessariamente preservare, nell’ambito di una necessaria concertazione con le aziende interessate, quelle forme contrattuali atipiche che, in ragione dell’elevato livello di specializzazione e/o dell’infungibilità della prestazione resa, risultano essenziali e funzionali all’erogazione dei livelli essenziali di assistenza (LEA)». (40) Aggiornamento 2015 al PNA (p. 40) «Soggetti destinatari dell’approfondimento» e approfondimento «Ruolo del RPC» del presente PNA. (41) La posizione del dirigente preposto all’ufficio legale/affari legali, comunque denominato, è disciplinata dall’art. 23 della legge 31 dicembre 2012 n. 247, «Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense» di cui tener conto nell’applicazione del principio di rotazione. (42) Aggiornamento 2015 al PNA (p. 47) «Rapporti contrattuali con i privati accreditati». (43) Ibidem. (44) Si veda la Griglia Livelli Essenziali di Assistenza sanitaria (LEA), D.M. Salute 2 aprile 2015, n. 70 e le discipline di settore specifiche. (45) Tale misura va intesa come intervento di rafforzamento del concetto di trasparenza degli atti amministrativi, ancorchè la normativa di settore distingua chiaramente le due fasi del procedimento di accreditamento e di contrattualizzazione. Si richiama al riguardo una pronuncia del Consiglio di Stato (Cons. St., sez. III, 16 settembre 2013, n. 4574) che ravvisa uno stretto legame tra accreditamento e contratto, ritenendo illegittimo precludere a tempo indeterminato l’ingresso nel mercato delle strutture private in possesso dei requisiti per l’accreditamento. La sentenza in questione sembra configurare un sistema in cui, sulla base della definizione del fabbisogno, il budget viene distribuito tra i soggetti privati in possesso dei requisiti per l’accreditamento secondo criteri qualitativi, previsti in un apposito bando. La sentenza riporta altre decisioni della stessa Sezione del Consiglio di Stato, in cui «si è ritenuto legittimo il riferimento non più al solo costo storico ma ad una molteplicità di elementi sia di carattere oggettivo, come la potenzialità dei singoli distretti, determinata dalla popolazione residente e dalle prestazioni richieste, sia di carattere soggettivo, con la ripartizione delle risorse secondo apposite griglie di valutazione che tengono conto di molteplici fattori qualitativi come dotazioni; unità di personale e tipologia del rapporto di lavoro; collegamento al CUP; accessibilità della struttura; correttezza del rapporto con l’utenza; rispetto degli istituti contrattuali; ulteriori standard finalizzati all’accoglienza, quali sale d’attesa, biglietto elimina code, riscaldamento e climatizzazione, apertura al sabato e misura degli spazi». (46) Consiglio di Stato Adunanza plenaria 20/06/2014 n. 14 – da cui si trascrive: «1.3.5.3. In questo quadro si coordina e delimita, ad avviso del Collegio, la previsione della revoca di cui al comma 1-bis dell’art. 21-quinquies della legge n. 241 del 1990, poichè dall’ambito di applicazione della norma risulta esclusa la possibilità di revoca incidente sul rapporto negoziale fondato sul contratto di appalto di lavori pubblici, in forza della speciale e assorbente previsione dell’art. 134 del codice (cosi’, come, per la medesima logica, nè è esclusa la revoca di cui all’art. 158 del codice), restando per converso e di conseguenza consentita la revoca di atti amministrativi incidenti sui rapporti negoziali originati dagli ulteriori e diversi contratti stipulati dall’amministrazione, di appalto di servizi e forniture, relativi alle concessioni contratto (sia per le convenzioni accessive alle concessioni amministrative che per le concessioni di servizi e di lavori pubblici), nonchè in riferimento ai contratti attivi». (47) Aggiornamento 2015 al PNA (pp. 46-47) «Attività libero professionale e liste di attesa». (48) Si veda la Deliberazione della Giunta della regione Emilia Romagna n.377 del 22 marzo 2016.